GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 399 - 598)
[399]3° Avanti il peccato, ossia avanti
il sapere, erat autem uterque nudus, Adam scilicet et uxor eius, et non
erubescebant. (Gen. 2.25.) Ma come prima Adamo ebbe mangiato del frutto, ET
APERTI SUNT OCULI AMBORUM: cumque COGNOVISSENT se esse nudos,
consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata. (3.7.) E Dio disse
loro: QUIS enim INDICAVIT TIBI quod nudus esses, nisi quod ex ligno
de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti? (3.11.) Questi luoghi
suggerirebbero vaste osservazioni sulla legge naturale, pretesa innata. In
sostanza è chiaro 1. che la decadenza dell’uomo consistè nella decadenza dallo
stato naturale o primitivo, giacchè subito dopo il peccato l’uomo provò una
contraddizione colla sua natura, vergognandosi della nudità, ossia del modo nel
quale era stato fatto: vergogna, e per conseguente dovere, che non esisteva
innanzi alla corruzone. 2. Che questa decadenza o corruzione in luogo di
consistere in quella della ragione, fu anzi cagionata dal sapere, giacchè l’uomo
allora seppe quello che prima non sapeva, e non avrebbe saputo nè dovuto
sapere, cioè di esser nudo. Quando aprirono gli occhi, come dice la
Genesi, allora conobbero di esser nudi, e si vergognarono della loro
natura (contro quello che prima era[400]avvenuto); e decaddero dallo stato
naturale, o si corruppero. Dunque l’aprir gli occhi, dunque il conoscere fu lo stesso che decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu decadenza
di natura, non di ragione o di cognizione. 3. Che l’uomo naturale sarebbe
vissuto come gli altri animali senza vestimenti. Questo è un gran colpo, tanto
alla pretesa legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa
necessità, o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell’uomo alla
società. Una gran parte del bisogno che l’uomo ha dell’aiuto scambievole, che
il bambino ha per lungo tempo de’ genitori, consiste ne’ vestimenti. Di più,
una gran parte del bisogno che l’uomo ha di una certa arte, di un certo uso
della sua ragione, consiste nel bisogno de’ vestimenti.
4°
Quanto alla società, non quella primitiva, e tenue e comune anche agli animali,
che ho definita di sopra, ma quella intera, e bisognosa di leggi, di costumi,
di riti, di potere e sudditi, di comando e ubbidienza ec. ec. vedi quello che
ne pensi la religion Cristiana p.112. capoverso 1.191. capoverso 2.
5° La
descrizione che fa Mosè del paradiso terrestre, prova che i piaceri destinati
all’uomo naturale in questa vita, erano piaceri di questa vita, materiali,
sensibili, [401]e corporali, e così per tanto la felicità. Oltracciò Dio
pose Adamo in paradiso voluptatis ut OPERARETUR et custodiret illum.
(2.15.) Dunque sebben l’uomo fu condannato dopo il peccato a lavorar la terra maledetta
nell’opera di esso, (3.17.) e scacciato dal paradiso di voluttà
(3.23.) ut operaretur terram de qua sumptus est (ib.), si deve intendere
a lavorarla con sudore, e con ingratitudine d’essa terra, secondo il contesto
della Genesi, e non che la sua vita avanti il peccato, e la sua felicità
dovesse consistere nella contemplazione, ed essere inattiva, ossia senza opere
e occupazioni corporali ed esterne, e piacere di queste opere. Infatti chi non
vede che l’uomo corrotto, ossia l’uomo tal qual è oggi ha molto più bisogni
degli altri viventi, molto più ostacoli a proccurarsi il necessario, e quindi
ha mestieri di molto più fatica per la sua conservazione? Fatica di stento,
comandata dalla ragione e dalla necessità, ma ripugnante alla natura: fatica
non piacevole ec. Laddove gli altri animali con poca fatica, e quasi nessuno
stento si procacciano il bisognevole; non lavorano la terra, nè questa produce
loro spinas et tribulos, (3.18.) cioè non contrasta ai loro desideri, ma
somministra loro il necessario spontaneamente; ed essi raccolgono e non [402]seminano.
Intendo parlare di qualunque cibo del quale si pascano. Del vestire, l’uomo
abbisogna nello stato presente, essi no, ma nascono vestiti dalla natura. La
società primitiva qual è usata anche dagli animali; il raziocinio primitivo,
ossia il principio di cognizione comune a tutti gli esseri capaci di scelta,
erano destinati a supplire ai bisogni dell’uomo. La società qual è, la ragione
qual è ridotta, accresce smisuratamente questi bisogni: il mezzo di servire ai
bisogni e di estinguerli, è divenuto padre, e cagione, e fonte perenne e
abbondantissima di bisogni. I bisogni naturali dell’uomo sarebbero pochissimi,
come quelli degli altri anmali; ma la società e la ragione aumentano il numero
e la misura de’ suoi bisogni eccessivamente. Questa distinzione fra’ bisogni
naturali, e sociali o fattizi, e nonpertanto inevitabili nel nostro stato,
formava il fondamento della setta Cinica, la quale si prefiggeva di mostrare
col fatto, di quanto poco abbisogni l’uomo naturalmente. V. l’epitaffio di
Diogene nel Laerzio. L’uomo fu dunque veramente condannato alla fatica, e
fatica di stento; vi fu condannato a differenza degli altri animali; ed
essendovi stato condannato sotto l’aspetto che ho esposto, non ne segue che la
sua vita innanzi la corruzione dovesse essere inattiva, cioè dovesse [403]contenere
meno attività ed occupazione fisica, di quello che ne contenga la vita degli
altri animali.
6° Se la
Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza allo
spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell’uomo nella ragione a
differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell’uomo sopra
la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema. L’uomo era corrotto, cioè,
come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l’uomo
era divenuto sociale: quindi l’uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la
ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto
dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua
essenza o condizione propria e primordiale. Da questo stato di corruzione, l’esperienza
prova che l’uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la
ragione, perchè quello che si è imparato non si dimentica. In fatti la storia
dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà
ad un altro, poi all’eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da
capo. Barbarie, s’intende, di corruzione, non già stato primitivo [404]assolutamente
e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta
mai l’uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l’uomo tal quale è
ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà media,
dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già radicata in
un posto più alto del primitivo. Questo stato non è il naturale assoluto, ma è
quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato
naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de’
miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque l’uomo corrotto
com’è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puramente
naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla
detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè Dio in
pena del peccato, avendo condannato l’uomo all’infelicità della corruzione
derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo. Volendo
mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile
colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che
perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto
immutabilmente nell’uomo [405]per la sua disubbidienza, e con ciò
causata la sua corruzione. La perfezion della ragione non è la perfezione dell’uomo
assolutamente, ma bensì dell’uomo tal qual è dopo la corruzione. Perchè la
perfezione di un essere non è altro che l’intiera conformità colla sua essenza
primigenia. Ora l’essenza primigenia dell’uomo supponeva e conteneva l’ubbidienza
della ragione, in somma tutto l’opposto della perfezion della ragione. Questa
perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non essendo
la perfezione dell’ente. Non poteva dunque se non formare la sua felicità in un’altra
vita, dove la natura dell’ente in certo modo si cambiasse. La ragione (massime
relativamente all’altra vita) non può essere perfezionata se non dalla
rivelazione. Fu dunque necessario che Dio rivelasse all’uomo la sua origine, e
i suoi destini; quei destini che avrebbe conseguiti rimanendo nello stato
naturale, e gli avrebbe conseguiti insieme colla felicità terrena. Laddove il
Cristianesimo chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e
necessari; in una parola suppone essenzialmente l’infelicità di questa vita,
per conseguenza [406]naturale degli addotti principj. Ma da questi segue
ancora che la maggior felicità possibile dell’uomo in questa vita, ossia il
maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all’infelicità naturale, è
la religione. Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana
assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è
impossibile all’uomo dopo la corruzione. La ragione autrice di essa corruzione,
avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell’uomo corrotto è la
perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale. La
perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un’altra vita.
Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non
può stare senza la rivelazione. Dunque il migliore stato dell’uomo corrotto,
è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene,
perciò, sebben suppone l’infelicità di questa vita, contiene però il maggior
conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione
possibile dell’uomo in questa vita. Ecco come la Religione si accorda
mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
[407]7° La perfezion della ragione
consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi l’opposizione
intrinseca ch’ella ha colla nostra felicità. V. p.304. capoverso 2. Questa è
tutta la perfettibilità dell’uomo, conoscersi incapace affatto a perfezionarsi,
anzi ch’essendo egli uscito perfetto sostanzialmente dalle mani della natura,
alterandosi non può altro che guastarsi. Ora la Religione confonde appunto la
nostra ragione, gli mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha
introdotto nell’uomo, e l’impossibilità ch’ell’ha di felicitarci: ed ecco la
perfezion della ragione. Perchè queste cose l’uomo non le avrebbe conosciute
nel suo stato primitivo, ma prevaluta la ragione, egli non può giungere a
maggior perfezione che di conoscere l’impotenza e il danno della ragione. La
perfezion della ragione consiste a richiamar l’uomo quanto è possibile al suo
stato naturale; ritorno ch’essendo fatto mediante quella ragione stessa che ha
corrotto l’uomo, ed avendo il suo fondamento in questa medesima corruttrice,
non può più equivalere allo stato naturale, nè per conseguenza alla nostra
perfezion primitiva, nè quindi proccurarci quella felicità che ci era
destinata. Ma contuttociò, riguardo a questa vita, è la miglior condizione che
l’uomo possa sperare. Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la
natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle
qualità ch’eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga
la nostra immaginazione coll’idea dell’infinito, predica l’eroismo, dà vita,
corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo
stato di civiltà media, il più felice stato dell’uomo sociale e corrotto
insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile
colla società. Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano, è
precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile. Vita, attività, piaceri
della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e
pubblica degl’individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza
data alle cose, compassione e carità ec. ec. Tutte le illusioni che sublimavano
gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e
forza nel Cristianesimo. Esempio della Spagna fino al 1820. del suo eroismo
contro i francesi ec. Le sue stesse superstizioni non erano altro che
illusioni, e però vita. Osservate ancora che tutto quello che v’è di meno della
civiltà media nello stato di un popolo, è contrario al Cristianesimo, o deriva
da corruzione di esso, come nello stato de’ bassi tempi, della Spagna ec.
Perchè il Cristianesimo puro, conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta
civiltà, quanta nè più nè meno conviene all’uomo sociale. D’altra parte
osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di
là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano veramente, è
stato mai al [409]di qua nè al di là della civiltà media. Le società o barbare assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite
dal Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media. Esempio de’
popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo. All’opposto le
società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli, (come anche gl’individui)
non sono state mai cristiane. Esempio de’ nostri tempi. In luogo delle qualità
dette di sopra, i distintivi di queste società, sono l’egoismo, la morte, il
tedio, l’indifferenza, l’inazione, la mala fede pubblica e privata, l’assenza
di ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello
stato primitivo, o sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni
illusione che forma la sostanza e la ragione della vita, e ch’essendo ispirata
dalla natura è confermata dal Cristianesimo.
8° La
detta perfezion della ragione è relativa a questa vita. Ma la ragione non può esser perfetta se non è relativa all’altra vita. Perchè quel
richiamarci ch’ella deve fare alla natura, e alle illusioni naturali, essendo
un richiamo fatto dalla ragione, non può esser altro che persuasione di esse
illusioni. Dopo ch’esse son conosciute, come ci torneremmo, se non [410]ci
persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione, non
ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile e
passeggero, come quello de’ moderni filosofi sensibili, che cercando a più
potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più,
momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e
morte. Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè
ripersuadercene, se non conoscendo che son vere. Ma non son vere se non
rispetto a Dio e ad un’altra vita. Rispetto a Dio ch’è la virtù, la bellezza
ec. personificata; la virtù sostanza, e non fantasma, come nell’ordine delle
cose create. Rispetto a un’altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la
virtù e l’eroismo premiato ec. dove insomma le illusioni non saranno più
illusioni ma realtà. Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa
come all’altra vita, perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a questa
vita dipende dalla perfezione rispetto all’altra) consiste formalmente nella
cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la
perfezione, e quindi la felicità dell’uomo corrotto. Dunque l’uomo
corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione,
ossia dalla Religione. Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato
come all’uomo corrotto sia necessaria quella cognizione, ch’era contraria alla
natura dell’uomo primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e
il sapere, non si opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della
ragione e del sapere.
9° L’esperienza
conferma che l’uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e
durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente)
religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali
non c’è felicità, ma ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer
vere all’uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il
fondamento e la realtà che si suppongano avere in un’altra vita. A questo
effetto contribuirono anche le Religioni antiche, il Maomettismo, le sette d’ogni
genere, e tutte quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una
società, e indottala ad operare. Riferite a questo tutto quello che ho
detto altrove della necessità di una persuasone per condurre alle azioni, e di
una persuasione che abbia l’aspetto d’illusione e di passione, ec. Giacchè la
persuasione che tutto sia nullo, non conduce all’azione. E la persuasione che
le cose sieno cose, non può [412]aver fondamento nè ragione, se non se
nell’idea e persuasione di un’altra vita. Ma questa ci deve persuadere: dunque
bisogna che la religione ci persuada, e non si può essere indifferenti circa la
sua qualità e verità. Altrimenti se la Religione si considera e si segue come
una delle altre illusioni, questa non sarà più persuasione, e tanto le altre
illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo del loro fondamento, e non ci
potranno quindi condurre all’azione durevole, alla perfezione, alla felicità.
Ecco perchè la Religione si trova presso la culla di tutti i popoli; ecco
perchè gl’imperi o stati fondati o conservati dalle opinioni religiose, sono
distrutti dalla filosofia; ecco perchè la decadenza di Roma fu compagna della
decadenza della sua Religione ec. ec. V. gli altri pensieri. Perchè
indebolendoo mancando le credenze Religiose, indebolisce, o manca il principio
di azione, cioè la credenza alle illusioni, o sia la persuasione della realtà
delle cose, le quali non possono essere reali ed importanti se non rispetto ad
un’altra vita. E nello stesso modo, mancando quella tal Religione che realizza
quelle tali illusioni, manca quel tale stato di un popolo, e la sostituzione di
un’altra Religione, non riconduce quello stesso stato, anzi lo cambia. E così
avvenne del Cristianesimo rispetto al paganesimo in Roma. Perchè l’uomo
credendo [413](non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera
diversamente. Quindi resta giustificata anzi lodata la gelosia che gli antichi
politici greci e Romani manifestarono sempre per le loro antiche credenze,
colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.
10° Dal
sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia
indifferente per l’uomo, non prova che la felicità dell’uomo consista nel
conoscere. Col prevaler della ragione e del sapere, l’uomo non potendo più
credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch’egli tornasse a crederlo
mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più
estinguere. La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come
indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli bisognava
per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli avea tolta.
Verità o errore, bastava ed importava solamente che l’uomo credesse quelle
cose, senza le quali non poteva esser felice. Ma l’errore l’avrebbe potuto
credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva
credere stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch’egli trovasse verità
reali in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e
servono di base alla vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva
trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religion
vera, cioè universalmente e stabilmente credibile. Ecco dunque come la
ragione non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione. La verità non
era necessaria all’uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità. Ora
la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere. E l’uomo
senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire,
quindi di vivere.
Ma
siccome la verità era necessaria all’uomo, soltanto come unico fondamento di
quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella parte di
verità che non serve di fondamento a queste credenze, è indifferente all’uomo,
anzi nociva, anche nello stato presente di corruzione. Al contrario di quello
che accadrebbe se la felicità dell’uomo o naturale o corrotto dovesse
necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la
verità assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all’uomo, e l’uomo
sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e particolare
estensione della verità, perch’egli prima di questo punto, non sarebbe arrivato
alla [415]sua perfezione. Al qual punto però gli è formalmente
impossibile di arrivare, come ho detto altrove. V. p.385-386. e p.389-390. Dove
che la Religione, avendo insegnato all’uomo quelle verità che realizzano le
credenze necessarie alla sua felicità, non solo non insegna, o suppone le altre
verità, ma anzi, come ho detto di sopra, e come prova l’esperienza, non c’è
maggior nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni. E la Religion
Cristiana si adatta e si deve adattare alla capacità dell’ignorante, e
conviene, anzi trova il suo miglior posto nell’ignoranza delle altre verità. Le
quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell’uomo, quantunque
già ragionevole, perchè non sono altro che un’estensione di questa ragione e
sapere che distruggono la umana felicità, e un più vasto eccidio di quelle
opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta la ragione, possono
esser credute stabilmente, se il sapere, l’esperienza ec. non si
applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l’ignoranza parziale. La
quale può occupare maggiore o minore spazio, e quanto più ne occupa tanto più l’uomo
è felice. P.e. le scoperte geografiche sono indifferenti alla religione. Ma
geometrizzando l’idea del mondo, distruggono quelle belle illusioni che ancora
restavano a causa dell’ignoranza parziale intorno a questo capo. [416]E
la perfezione della ragione non consiste nella cognizione di queste verità,
perchè non consiste nella cognizione della verità in quanto verità, ma in
quanto stabile fondamento delle credenze necessarie o utili alla vita. E ci
deve richiamare alla natura o alla felicità naturale per una strada diversa
dalla primitiva, la quale è irrevocabilmente perduta. Ora se alcune delle dette
credenze hanno già un fondamento stabile nell’ignoranza parziale, la ragione e
il sapere, distruggendole nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono
alla loro perfezione la quale consiste in richiamarci alla natura. Laddove
scoprendo queste verità parziali ch’erano stabilmente nascoste, ci allontanano
maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità. V. p.420. capoverso 1.
11° Il
mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto
il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del
Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto.
Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire
a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta
intatta, ovvero oscura e difficile. 1. L’origine del mondo e dell’uomo, che [417]mediante
il Cristianesimo resta spiegata colla creazione. 2. Col Cristianesimo resta
spiegato perchè l’uomo sia così facile a perdere il suo stato primitivo, e non
si trovi, si può dir, popolo nè individuo che perfettamente conservi questo
stato, ch’io predico pel solo perfetto, felice, destinatogli, e proprio suo:
laddove tutti gli altri viventi appresso a poco (escluse alcune cause accidentali,
e provenienti per lo più dall’uomo) conservano il loro primo stato. (Sebbene si
potrebbero forse addurre parecchi esempi di nazioni che conservano quasi
interamente lo stato naturale, e ne sono felici e contente: nè hanno se non
quanta società conviene ai loro bisogni, come ne hanno gli animali; peraltro
con quel di più che conviene alla nostra specie, a causa dell’organizzazione,
specialmente riguardo agli organi della favella. Anche gli animali hanno più o
meno società, proporzionatamente alla natura rispettiva, e le scimie più degli
altri, perchè più si accostano alla nostra organizzazione). Questo fenomeno si
può naturalmente spiegare colla diversità dell’organizzazione, la quale in noi
è tale che ci dà somma facilità di sperimentare, e quindi conoscere, e quindi alterare il nostro primo
stato: giacchè l’esperienza è la sola madre
della cognizione [418]e del sapere, come anche delle immaginazioni
determinate (non della facoltà immaginativa): e questo in tutti i viventi:
essendo riconosciute per favola le idee assolutamente innate. Così forse anche
la nostra diversa organizzazione interna, come del cervello ec. Ma da questa
spiegazione si potrebbe conchiudere che l’uomo dunque, in vece d’essere il
primo degli enti nell’ordine delle cose terrestri, è anzi l’infimo, perch’è il
più facile a perdere la sua felicità, ossia la perfezione; e quasi
impossibilitato a conservarla. (Questa conseguenza già non sarebbe assurda se
non per chi si forma della perfezione un’idea assoluta, ossia considera la
perfezione assolutamente secondo le nostre idee nello stato presente. Chi
considera la perfezione e ogni altra cosa come relativa, non avrebbe difficoltà
di creder l’uomo l’infimo degli enti terrestri). Il Cristianesimo spiega
chiaramente perchè la ragione e il sapere corruttori dell’uomo, siano in lui
così facili a prevalere, giacchè attribuisce la cagione originale e radicale
della sua corruzione, al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la
ragione e la natura sua, ragione e natura ottimamente equilibrate o subordinate
l’una all’altra, insomma combinate negli altri esseri viventi. Ed è ben
conforme alla ragione, e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare
la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto [419]di
farlo, com’era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia
voluto assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità
temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch’è
seguita dall’incremento della ragione umana, alla Redenzione ec. Manifestazione
che non avrebbe avuto luogo se l’uomo avesse conservato il suo grado e felicità
naturale, ancorchè più perfetto, relativamente alla sua natura. Questa
supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al
Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise il
peccato dell’uomo per sua maggior gloria. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo,
era certamente meglio che l’uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più
perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era
destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse. Dunque secondo lo
stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise una
cosa contraria alla destinazione dell’uomo. Dunque questa destinazione era meno
atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi. [420]Altrimenti
Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo:
avrebbe lasciato violare e guastare l’ordine da lui stabilito senza motivo; e
non avrebbe fatto il meglio ma il peggio.
Così il
Cristianesimo aiuta il mio sistema riempiendone le necessarie lagune nelle cose
dove non arriva il nostro ragionamento: e di più l’appoggia precisamente; come
apparisce dal sopraddetto, massime dalla esposizione di quei luoghi della
Genesi, i quali somministrano una formale e stretta dimostrazion religiosa del
punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione e l’infelicità
conseguente dell’uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione, (9-15. Dic. 1820.) e consiste immediatamente nell’esso incremento loro.
Alla
p.416. L’ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell’uomo
alterato dalla ragione, anche nell’uomo ridotto in società. Può dunque servire
di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali;
dunque tener l’uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo
più o meno felice. Per [421]conseguenza quanto maggiore per estensione,
e per profondità sarà questa ignoranza parziale, tanto più l’uomo sarà felice.
Questo è chiarissimo in fatto, per l’esperienza de’ fanciulli, de’ giovani,
degl’ignoranti, de’ selvaggi. S’intende però un’ignoranza la quale serva di
fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori
che non sono primitivi e derivano da corruzione dell’uomo, o delle nazioni.
Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati
dalla natura, e perciò convenienti all’uomo, e conducenti alla felicità; altro
quelli fabbricati dall’uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all’opposto,
com’essendo un’alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si
oppone a esso stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono
alla felicità, ma all’infelicità. V. p.314. Quindi è che dopo lo stato
precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una
civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa
mezzana ignoranza, [422]mantengano quanto è possibile delle credenze ed
errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed
escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e
barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni
perciò di vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale.
Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò
dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano
senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l’uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All’opposto la barbarie de’ tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva.
Questa non poteva conferire alla felicità, ma all’infelicità, allontanando
maggiormente l’uomo dalla natura: se non in [423]quanto quell’ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la
natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo
maggiore ostacolo ch’è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita
meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella che
produce l’incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo. Del
resto v. in questo proposito p.162. capoverso 1. Tra la barbarie e la civiltà
eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno
infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità.
Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de’ bassi tempi, è opposta
alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente,
barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec.
ec. Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne ed
europee.).
Ma il
detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto durasse
la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto durasse
quella tal misura e profondità d’ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali
che vi erano fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando
l’ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto
più rozze, non potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni
reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità. Le
nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni
vita. Bisognava richiamare quelle illusioni. Ma come, se restavano e non
potevano più allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la
ragione e il sapere erano padroni dell’uomo? (qui osservate gl’inutili sforzi
di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come
illusioni, non più come verità, perchè tali non erano più credute; e com’egli
non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell’immortalità
dell’anima, e del premio delle buone azioni nell’altra vita; insomma proccurava
di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual
religione, e v. gli altri pensieri). Bisognava dunque richiamare quelle
illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa ragione e
sapere. Dico col mezzo, perchè non c’era altro modo di richiamarle, se non
tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione
e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e sapere che le
avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di
nuovo nell’anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa. (come
conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere). Non c’era altro mezzo se non
che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme
ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni
perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste
ripigliassero l’aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini. In
somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e
necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O parlando
cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione,
che quelle credenze ch’ella aveva ripudiate, erano vere. Ecco dunque arrivata
la necessità di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè
rivelata, perchè senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta
ragione credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è
veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della
ragione e sapere di quei tali tempi. Ed ecco il punto in cui comparve il
Cristianesimo, cioè quel momento in cui l’eccessivo progresso della ragione e
del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso
o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze
primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo (e
quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella
orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi
secoli: quel momento in cui la virtù, l’eroismo, l’amor patrio, l’amore
scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente
parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami
sociali, e anche individuali, cioè dell’uomo con se stesso e con la vita: quel
momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si
sviluppano naturalmente nell’uomo ridotto in società, (quali sono quasi
tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte: [427]quel momento a
cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o
Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l.9. Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali
furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non
però divulgato, anzi bambino).
Con ciò
si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non
prima nè dopo: e per la pienezza de’ tempi famosa nel Vecchio Testamento
si potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il
sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una
devastazione, e una rivoluzione micidiale nell’uomo, e una mortificazione
generale dei popoli colti e degl’individui. In maniera che quello era il punto
in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande rivelazione del
vero relativo all’uomo diveniva precisamente, e per la prima volta necessaria.
E il
Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante,
sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale
cagionata da essa ragione. Ma appunto perchè la medicina era composta di
ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate,
cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole,
perciò [428]quel rimedio era bensì l’unico applicabile a quei tempi, e
giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore
al male. Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi più
conducente alla felicità di quaggiù. E infatti la vita, sebben tornò ad esser
vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente
più infelice, giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all’uomo che la vita
è ragionevole, e ch’egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar
questa ad un’altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa
vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il
detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma delle cause che aveano, come
si è detto, prodotta la necessità di questo rimedio; cause che presto o tardi
doveano necessariamente emergere dall’andamento che avea preso la ragione
(ossia dalla superiorità che aveva acquistata, e che dovea naturalmente
crescere e portar gli uomini a quel punto) e dallo stato di società, a cui l’uomo
era irrevocabilmente ridotto. Sicchè presto o tardi era indispensabile e certa
la nascita del Cristianesimo, o di una [429]Religione ammissibile dalla
ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle
antiche le quali non erano conformi nè adattabili se non ad un grado di ragione
e di sapere molto minore. Quindi, posta la corruzione dell’uomo operata dalla
ragione e dal sapere, l’uomo doveva necessariamente arrivare una volta, a
quella poca felicità di vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e
anche produce attivamente, ma come seconda e necessaria, non come prima e
libera cagione. Era dico indispensabile presto o tardi il Cristianesimo, posta
la corruzione operata dalla ragione, e lo era 1. umanamente: perchè la ragione
prima di arrivare a quell’estremo al quale è giunta oggidì, doveva naturalmente
spaventarsi di se stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose,
e quindi venirsi a distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa
come assurda, e concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale
dasse alle cose quella realtà ch’essa non poteva più scoprire nè ammettere.
Quindi anche da se stessa [430]dovea rifugiarsi nel seno di una
religione astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una
religione misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà delle cose
di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente colle
sue forze, veniva stabilita dall’opinione verisimile, e creduta vera, di un Dio
infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la detta
realtà. Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma creduto vero, veniva
a creder quelle cose, che dall’una parte non poteva credere sopra un fondamento
chiaro e dettagliato; dall’altra parte le sembrava ancora assurdo il negare, a
dispetto della natura e del sentimento intimo che le asseriva. Sicchè la
ragione anche da se, nel suo corso naturale, prima di distrugger tutto, doveva
necessariamente immaginare, e persuadersi di una religion rivelata. 2. molto
più divinamente. Perchè supposto un Dio, e che questi abbia cura delle sue
creature, quando per non veder perire [431]il primo degli enti
terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita quaggiù, o ridursi all’ultima
infelicità, non rimase altro mezzo che la credenza di una rivelazione, era
troppo conveniente alla sua misericordia l’adoperarlo, e perchè questa credenza
fosse stabile e certa, fare che fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto
sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato dell’uomo corrotto e
sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo stato, ciò
non contraddice a quello ch’io soggiungo, che l’uomo era più felice prima che
dopo il Cristianesimo. Perchè questo stato di civiltà media può avere diversi
gradi, cioè contener più o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o
non naturali; e quindi essere più o meno felice. Ma oggidì non essendo più
possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore incremento della
ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita, è lo stato di
vero e puro Cristianesimo. V. poi gli altri miei pensieri circa gli effetti del
Cristianesimo (o delle cause che lo produssero) [432]sulla società,
sulla qualità e sulla felicità di questa vita.
Del
resto osservate che il Cristianesimo limita estremamente l’esercizio della
ragione, di quella facoltà distruttrice della vita; di quella facoltà che l’aveva
reso necessario; di quella al cui guasto egli è venuto a riparare; di quella
che in certo modo l’invocò e lo produsse. Perchè, tranne alcune proposizioni
generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e
credute, vale a dire, l’esistenza, la provvidenza, la manifestazione, e l’infallibilità
di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che la religione insegna,
sono indipendenti dall’esame e dall’intervento della ragione. E sebben questa,
credendole, e regolando con esse le azioni e la vita, opera ragionevolmente e
conseguentemente, in vista di quelle proposizioni generali, contuttociò, l’uso
e l’esercizio suo resta scarsissimo nella vita cristiana, limitandosi al solo
fondamento, e al solo generale, il quale esclude essenzialmente ogni operazion
della ragione in tutti i particolari, che sono il [433]più, e che
formano e regolano la vita. Anche per questo capo il Cristianesimo conduce l’uomo
alla civiltà media, ingiungendo l’inazione e l’acciecamento della ragione nella
vita, sebbene essa ragione sia la fonte di questa inazione ec. dipendente dalla
persuasione attiva ch’ella ha, delle proposizioni fondamentali.
Alla
p.398. Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et
sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. (Gen. 3.22.)
Dunque il ragionamento è chiaro. S’egli mangerà del frutto dell’albero di vita,
vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e mangiato dell’albero della
scienza, aveva realmente acquistato essa scienza. E Dio non gliel’aveva tolta,
perchè nello stesso modo gli poteva togliere l’immortalità, se avesse mangiato
dell’albero della vita. Ora egli tanto non giudicava di togliergli quest’immortalità,
nel caso che ne avesse mangiato, che anzi perchè non ne mangiasse (non per il
peccato, ma per questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della
Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov’era quell’albero di vita. Et emisit eum
(segue immediatamente [434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso
voluptatis... et collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum
gladium atque versatilem, AD CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE. (23.24.)
Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione dell’uomo consistè
nella ribellione della carne allo spirito, e nella superiorità acquistata da
quella, ossia nell’assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva.
Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione e del peccato. È vero,
e dico anch’io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e della
natura ch’io sempre predico, nemicizia che non ha luogo negli altri viventi,
provveduti per altro di raziocinio, e del principio di cognizione. Ma questa
nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute allora
incompatibili, provenne e consistè nell’incremento e preponderanza acquistata
dalla ragione; e la degradazione dell’uomo non fu quella della ragione nè della
cognizione, nè l’offuscazione dell’intelletto. Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l’uomo ebbe l’intelletto rischiaratissimo, acquistò la scienza del
bene e del male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex nobis,
disse Iddio. [435]Tutto ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali.
Allora insomma la ragione dell’uomo cominciò a contraddire alle sue 1.
inclinazioni, 2. credenze primitive, cosa che per l’avanti non aveva fatto; e
questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito al corpo,
non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate
che il mio sistema è l’unico che possa dare alla narrazion della Genesi, una
spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non
può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo. E
infatti secondo i teologi i quali considerano l’incremento della ragione e
sapere come un bene assoluto per l’uomo, e la parte ragionevole come primaria
in lui assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la
corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta
assurdissimo, giacchè pone l’incremento della ragione e l’acquisto della
scienza come effetto preciso e diretto del peccato. Laddove il mio sistema che
pone la perfezion vera ed essenziale dell’uomo, nel suo stato primitivo, cioè
in [436]quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente dalle mani
di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del sapere,
trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo, e
conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
Nella
Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa in Adamo,
eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho detto p.394.
fine. Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut
videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che
forse è quanto dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè
omne animal vivens) ipsum est nomen eius. Appellavitque
Adam nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes
bestias terrae. (Gen. 2.19. et 20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in
Adamo, nè la scienza di quelle qualità degli animali che non si conoscono senza
studio, ma solamente di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all’orecchio
ec.: qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli
oggetti sensibili [437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico
e quelle parole che formano le radici degl’idiomi.
Del
resto sostengo anch’io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la
proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo. Ogni essere
capace di scelta, anzi tale che non si può determinare all’azione (neppure a
quella necessaria per conservarsi, eccetto le azioni che chiamano hominis,
se ce ne ha veramente) e per conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo
e definito della sua volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve credere che le
cose siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o cattiva,
altrimenti la sua volontà non avrà motivo per determinarsi ad abbracciarla o
fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all’affermativo o al negativo. E l’uomo
e l’animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente come quell’asino
delle scuole, di cui vedi p.381. Le piante e i sassi che non si muovono da se,
nè dipendono da se nell’azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma
l’animale che dipende da se nell’azione e nella vita, ha bisogno di credere,
giacchè non c’è altro motivo [438]nè mobile, nè altra forza, (eccetto l’estrinseche)
che lo possa determinare, e definirne la scelta. Qualunque essere non è
macchina, ha bisogno di credenze per vivere. Dunque anche gli animali, se non
sono purissime macchine: dunque hanno anch’essi il principio di ragionamento,
senza cui non v’è credenza, perchè il credere non è altro che tirare una
conseguenza.
Ma io
dico credenze, non cognizioni. L’oggetto della cognizione è la verità; l’oggetto
della credenza è una proposizione credibile, e dico credibile relativamente in
tutto e per tutto alle qualità generali o individuali, essenziali o accidentali
dell’essere che crede, perchè una cosa può esser credibile a una specie o
genere, e non ad un’altra; a un individuo di quella specie o genere, e non ad
un altro; a questo medesimo individuo oggi, e non domani.
La
verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna sapere quali
determinazioni a credere siano atte a produrre una determinazione ad operare,
vantaggiosa (e questo veramente) all’essere pensante e vivente; e perciò
quali determinazioni a credere, o sia quali credenze, sieno atte a produrre la
sua felicità.
Io
dunque dico che queste credenze determinanti l’uomo bene (cioè non altro che
convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e perciò conducenti [439]alla
felicità, sono (come negli altri animali) le credenze ingenite, primitive, e
naturali.
In
questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza propriamente, ma delle
credenze infuse: non la cognizione del vero, indifferente per lui, ma delle
opinioni credute veramente vere da lui, opinioni di credere il vero (senza di
che non v’è credenza), e opinioni veramente convenienti alla sua natura, e alla
sua felicità, e quindi conducenti alla perfezione. E Adamo ne dovette avere
necessariamente, come gli altri animali, perchè senza credenze non c’è vita per
quegli esseri che dipendono nell’operare dalla determinazione della propria
volontà, come ho dimostrato.
Queste
credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non quello che si
chiama istinto, idee innate ec. Gli animali ne hanno: non si contrasta: ma non
perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono macchine pure: l’istinto
non è altro che quello che ho detto, cioè credenze ingenite. Queste non tolgono
la libertà, perchè non fanno altro che determinare la volontà, e non già
forzare macchinalmente gli organi: nello stesso modo [440]che una
credenza qualunque, o ingenita o acquistata, non toglie la libertà o la scelta
all’uomo. Che il ragionamento necessario per iscegliere sia determinato da
principii naturali ed innati, o da principii acquistati colla cognizione, da
principii veri, o da principii falsi ma creduti naturalmente veri; questo è
indifferente alla libertà, com’è indifferente alla felicità relativa che ne
dipende, il vero o il falso assoluto. E il ragionamento della scelta, è
ragionamento nello stessissimo modo, da qualunque principio parta. Sicchè i
bruti hanno istinto e insieme libertà piena. L’uomo dunque che aveva libertà
piena, aveva ancora ed ha tuttavia istinto. Considerate l’uomo naturale, il
fanciullo ec. e vedrete quante sieno le sue azioni determinate da principii
ingeniti, sieno principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione
delle cose come sono. P.e. il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne
succhia il latte senza maestro. Ma è cosa già osservata, e quanto naturale ad
accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e tuttavia
degnissima d’esser sempre meglio osservata, che la forza dell’istinto, scema in
proporzione che crescono le altre forze determinatrici dell’uomo, cioè la
ragione e la cognizione; e così [441]in proporzione che l’uomo si
allontana dalla natura, per la società, l’alterazione o sostituzione di altri
mezzi a quelli che la natura ci aveva dato per gli stessi fini ec. ec. E come l’uomo
perde la felicità naturale, così pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale dell’istinto, e dei mezzi ingeniti di ottener questa felicità. Perciò è un vero
acciecamento il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che
gli bisogna per esistere: l’uomo no: e dedurne ch’egli dunque ha bisogno di ammaestramento,
di società ec. insomma ch’egli esce imperfetto dalle mani della natura, e
conviene che si perfezioni da se. Anche l’uomo aveva naturalmente tutto il
necessario; se ora non sente più d’averlo, viene che l’ha perduto; ha perduto
la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi.
Osserviamo l’uomo primitivo, il bambino, e proporzionatamente l’ignorante, e
vedremo quanto essi o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto;
o credano di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e
avrebbe servito ai nostri bisogni veramente, ed era l’istrumento che ci
conveniva, e che [442]la natura ci avea posto in mano; e sebben falso in
assoluto, era vero in relativo, e pienamente sufficiente al suo fine, cioè
insomma, alla nostra esistenza perfetta secondo la nostra particolare essenza,
e quindi alla nostra felicità.
Ma
bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o vero istinto,
e idee innate. Idee precisamente innate non esistono in alcun vivente, e sono
un sogno delle antiche scuole. La natura influisce sulle idee o credenze di
qualunque animale, non ponendoci identicamente e immediatamente quelle tali
idee e credenze, ma mediatamente, cioè disponendo l’animale, e l’ordine delle
cose relativo a lui, in tal maniera, che l’animale si determini naturalmente a
credere questo e non quello. Così che la credenza non è neppur essa determinata
primitivamente, non più della volontà, ma deve anch’essa determinarsi prima di
determinare la volontà. Ma come le azioni o determinazioni della volontà sono
naturali quando vengono da credenze naturali, così le credenze o determinazioni
dell’intelletto sono naturali, quando sono conformi al modo in cui la natura
avea disposto e provveduto che l’intelletto si determinasse; cioè ai mezzi di
credenza che [443]la natura ci ha dati, come nelle credenze ci ha dato i
mezzi di azione.
Tutti i
moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più primitive, le
più necessarie all’azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze
moventi del bambino appena nato, (e così d’ogni altro animale): tutte le idee o
credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all’azione, non
vengono altro che dall’esperienza, e quindi non sono se non tante conseguenze
tirate col mezzo di un raziocinio e di un’operazione sillogistica, da una
maggiore ec. (E qui osservate la necessità del raziocinio ne’ bruti.)
Questa
esperienza che deve necessariamente formare la base o come chiamano, le
antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v’è idea nè credenza,
può esser di due sorte. L’una è quella che deriva dalle inclinazioni naturali,
passioni affetti ec. tutte cose veramente ingenite, e assolutamente primitive,
sebbene molte di esse possano svilupparsi più o meno, o nulla; possono
alterarsi, corrompersi ec. L’uomo che sente fame (quest’è un’esperienza) e si
sente portato dalla natura al cibo (questa non è idea, ma inclinazione), ne
deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa buona. Ecco la conseguenza, cioè
la [444]credenza. Dunque si determina e risolve a cibarsi. Ecco la
determinazione della volontà prodotta dalla previa determinazione dell’intelletto,
ossia dalla credenza. Segue il cibarsi, cioè l’azione, che deriva dalla volontà
determinata in quel modo.
L’altro
genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni. E l’uno e l’altro
genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in atto (non in
potenza); i soli fonti o del credere o del sapere. Qual conseguenza poi si
debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch’è relativo, perchè
l’uomo naturale, ne tira una; l’uomo sociale, istruito ec. un’altra; quell’animale
di diversa specie, un’altra: e via discorrendo. E così son relative e si
diversificano le credenze.
Sicchè
la credenza è naturale, quando l’animale tira da quella esperienza, quella
conseguenza che la natura ha provveduto che ne tirasse, e viceversa. E quindi l’azione
che ne deriva è naturale, quando proviene da una credenza naturale, ossia da
una conseguenza tirata naturalmente, e viceversa. E quindi la vita è
naturale quando le azioni derivano da credenze naturali, e viceversa. E quindi
finalmente l’uomo è perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la sua
vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente innate
nè le idee nè le credenze, ma è innata nell’uomo la disposizione a determinarsi
dietro quella tale esperienza, inclinazione ec. a quella tal credenza o
giudizio. E in questo senso io nomino le idee innate e l’istinto. E così
appunto avviene nei bruti, i quali non hanno altre idee innate che in questo
senso, e tuttavia generalmente parlando, tutti gli animali della stessa specie,
hanno le stesse credenze cioè si determinano a credere nello stesso
modo; e operando giusta tali credenze, sono tutti perfetti e felici
relativamente alla loro essenza. Tali credenze pertanto sono effettivamente
naturali, e figlie legittime della natura, sebbene non partono immediatamente
dalla sua mano. Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati.
Nello stesso modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali,
sebbene eseguite immediatamente dall’individuo, e non dalla natura: sebben
libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da credenze
religiose, filosofiche ec. le quali tuttavia, senza esser forzate, si chiamano
e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L’uomo si allontana dalla natura, e
quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni genere, ch’egli non
doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non facesse (perchè s’è mille
volte osservato ch’ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli
alla cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di
conversazione scambievole ec. la sua ragione comincia ad acquistare altri dati,
comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati
naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze, o
ch’elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo
stato naturale dell’uomo; le sue azioni non venendo più da credenze naturali
non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni,
perchè non giudica più di doverlo fare, nè più ne cava la conseguenza naturale
ec. E per tal modo l’uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla
sua propria natura, diviene infelice. (L’uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze esterne, che gl’impediscano di conformar le azioni alle credenze,
cioè di far quello ch’egli giudica buono per lui, o non far quello ch’egli
giudica e crede [447]cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze
fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec.
Quest’infelicità non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l’infelicità
antica.)
Da
queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la
ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l’esperienza che n’è la madre.
Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell’uomo naturale, e degli altri
viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate
in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali dati. L’esperienza,
crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di
questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette
conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a
credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire
quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi. Ma la ragione assolutamente
in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione anche [448]nello
stato naturale; vale a dire, anche nello stato naturale l’uomo (e così nè più
nè meno il bruto) è conseguente, e si determina a credere quello che gli par
vero, per via di perfetto raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire
quello che crede veramente buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura
generale e individuale, e alle sue circostanze di quel tal momento in cui si
determina.
Del
resto, come l’indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione
dell’intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l’animale libero,
e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso a poco il
dubbio, ch’è quasi tutt’uno col detto stato. Così anche sarà cattiva e dannosa
la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a questo capo l’angoscia e
il tormento dell’irresoluzione): e quindi lo stato dell’uomo sarà tanto più
felice, quanto egli avrà maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere
(dal che poi segue l’operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e
con quanto maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s’intende
già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione contraria [449]è
fuor del caso). Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l’uomo si
determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto
più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non
hanno nè difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o credenze,
innate nel senso detto di sopra. E così il fanciullo, l’ignorante, ec. E per lo
contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa,
tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell’intelletto,
e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza. Così
che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza
nell’operare, ch’è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione
inversa del loro sapere. Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di
quell’antico sapiente. E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la
sommità, la meta, la perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l’ignorante,
si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di
certo tutto quello che crede. E questa è la sommità dell’ignoranza. (Onde
credendo quello ch’è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne
viene a esser felice e [450]perfetto.) In maniera che, dove alla
determinazione dell’uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la
credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo,
viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione. E in vece che
l’ignoranza, tal qual è in natura, (non l’assoluta, cioè la negazione di ogni
credenza, o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà) conduca l’uomo
o l’animale all’indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e
l’eterna esperienza lo prova). E l’uomo tanto meno, tanto più difficilmente,
lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa. Tanto minore è la
determinazione, quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza
sia incompatibile coll’ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile
coll’ignoranza che col sapere.
Se poi
ancora dubitaste di quello ch’io dico, cioè che in Adamo fu primitivamente
infusa la credenza come negli altri animali, e non la scienza propria; basta che osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato
egli acquistò la scienza del bene e del male. La scienza del bene e del
male, non è altro che la cognizione assoluta, [451]la credenza vera non
più relativamente ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone
o cattive, non relativamente all’uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la
cognizione della realtà, della verità assoluta che per se stessa è indifferente
all’uomo, e nociva quando il conoscerla è contrario alla natura del conoscente.
Se dunque Adamo l’acquistò dopo il peccato, non l’aveva per l’avanti. In fatti
la Scrittura dice espressamente che non l’aveva, e il serpente persuase alla
donna di peccare per acquistarla. Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e
decisivo. Come poteva essere infusa primitivamente la scienza in Adamo,
se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male? E
qual fosse l’effetto di questa precisa scienza, vedilo p.446-447.
È cosa
mille volte osservata che gl’individui naturalmente son portati a misurar gli
altri individui da se stessi, cioè a creder vero assolutamente quello ch’è vero
soltanto relativamente a loro. Anzi naturalmente, l’individuo appena può
concepire formalmente un altro individuo di diverso carattere, indole, pensare,
fare ec. Al più concepirà che questo sia, perchè lo vede, ma non il come sia,
non la espressa e definita costituzione di quell’individuo, diversa dalla sua.
Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane e usuali. Se dunque
gl’individui, quanto più naturalmente le specie e i generi, rispetto alle altre
specie e generi! se dunque le specie e i generi di uno stess’ordine di cose,
quanto più tutto quest’ordine di cose complessivamente, rispetto a un altr’ordine,
o esistente o possibile! [452]Ella è cosa certa e incontrastabile. La
verità, che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e
il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che
relativi. Quest’è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici. Quest’è
un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e
appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione
delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v’è
quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser
la base di tutta la metafisica.
(22. Dic. 1820.)
In
proposito della pretesa legge naturale, come in natura non esista idea nè legge
di contratto, e come non ci possa assolutamente esser contratto obbligatorio in
natura, ancorchè fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione, vedilo
nell’Essai sur l’indifférence en matière de Religion, una ventina di pagg. dopo
il principio del Capo X.
(22. Dic. 1820.)
Tanto è
vero che lo straordinario è fonte di [453]grazia, che gli uomini
malvagi, purchè la loro malvagità abbia un carattere deciso, aperto, franco,
coraggioso, sia una malvagità schietta forte e costante, non timida, indecisa,
nascosta, variabile ec. come quella di tutti: questi tali fanno per lo più
fortuna colle donne a preferenza dei buoni. Non già solamente perchè i malvagi
sono più furbi dei buoni, ma propriamente per questo che sono malvagi, e perchè
quel non so che di coraggioso, di fiero ec. insomma di straordinario che ha
quella tale malvagità, picca e piace, e rende amabile. Così che lo stesso
odioso diventa amabile, perciò appunto ch’essendo decisamente odioso, viene a
essere straordinario.
(22. Dic. 1820.)
Clarissimum
deinde omnium ludicrum certamen, et ad excitandam (alii legunt exercitandum,
sed non probatur) corporis animique virtutem efficacissimum, Olympiorum,
initium habuit. Velleius hist. rom. l.1. c.8.
(22 Dic. 1820.)
Quale
idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell’infelicità) dell’uomo
in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse
loro solido e reale, [454]si può arguire anche da questo, che delle
grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e
temevano perciò l’invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi
ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare
soddisfazione agli Dei, e mitigare l’invidia loro. Deos immortales precatus
est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum
potius saevirent, quam in remp. Velleio l.1. c.10. di Paolo Emilio. E così
avvenne essendogli morti due figli, l’uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l’altro
3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum. V. pure Dionigi
Alicarnasseo l.12 c.20. e 23. ediz. di Milano, e la nota del Mai al c.20. V.
ancora questi pensieri p.197. fine. Così importanti stimavano gli antichi le
cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri
fini che i nostri, mettevano i Dei in comunione della nostra vita e de’ nostri
beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i
nostri simili, [455]non dubitando ch’elle non fossero degne della
invidia degl’immortali.
Come in
quei popoli che non conoscono o non pregiano oro nè argento, il più ricco de’
nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore, anzi se non avesse altro
mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all’infimo di quella gente, e per
danari non otterrebbe neanche il necessario; così dove l’ingegno o lo spirito
non è in pregio, o non si sa valutare, l’uomo il più ingegnoso, il più
spiritoso, il più grande, se non avrà altre doti, sarà dispregiato, e posposto
agli ultimi. Così s’egli avrà un certo ingegno o un certo spirito, che in quel
paese non si pregi. Così relativamente ai tempi. In ciascun luogo e in ciascun
tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa, è
povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta.
(23.
Dic. 1820.).
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma
triumphati dum caput orbis erit.
Ovid.
Amorum l.1.
Fortunati
ambo! si quid mea carmina possunt, Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456]Dum
domus Aeneae Capitoli immobile saxum
Adcolet,
imperiumque pater Romanus habebit.
Virg.
Aen. IX. 446.
sque
ego postera Crescam laude recens, dum Capitolium Scandet cum tacita virgine
pontifex.
Hor. Carm. III. od.30. v.7.
Roma non
è più la Regina del mondo, nè il padre Romano tiene le redini dell’imperio, nè
il pontefice ascende più al Campidoglio colla Vestale, e questo da lunghissimo
tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non
son caduti dalla memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio. La fortuna
giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s’immaginavano che il tempo dovesse
penar più a distruggere i versi loro, che l’immenso e saldissimo imperio
Romano, opera di tanti secoli. Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran
mole, per mero giuoco della fortuna la quale ha distrutte infinite altre opere
degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla
stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de’
loro autori.
(23. Dic. 1820.)
[457]Quanto sia vero che l’amore
universale distruggendo l’amor patrio non gli sostituisce verun’altra passione
attiva, e che quanto più l’amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in
intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi
della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma,
furono contemporanei alla cittadinanza data all’Italia dopo la guerra sociale,
e alla gran diffusione delle colonie spedite per la prima volta fuori d’Italia
per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa dopo l’affare di C. Gracco, e 40
circa dopo quello di Tiberio Gracco, del quale dice Velleio, (II. 3.) Hoc
initium in urbe Roma civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit. col
resto, dove viene a considerarlo come il principio del guasto e della decadenza
di Roma. Vedilo l.2. c.2. c.6. c.8. init. et c.15. et l.1. c.15. fine. colle
note Varior. Le quali colonie portando con se la cittadinanza Romana,
diffondevano Roma per tutta l’Italia, e poi per tutto l’impero. V. in
particolare Montesquieu, Grandeur etc. ch.9. p.99-101. e quivi le note. Ainsi
Rome n’étoit pas proprement une Monarchie [458]ou une République,
mais la tête d’un corps formé par tous les peuples du monde... Les peuples...
ne faisoient un corps que par une obéissance commune; et sans être
compatriotes, ils étoient tous Romains. (ch.6. fin. p.80. dove però egli parla sotto un altro
rapporto.) Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più
cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò
nè Roma nè il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne
indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu
più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non
ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
Quanta
parte abbia nell’uomo il timore più della speranza si deduce anche da questo,
che la stessa speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a
temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s’ella è
notabile. E l’uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la
speranza è maggiore. Chi spera teme, e il disperato non teme nulla. Ma
viceversa la speranza non [459]deriva dal timore, benchè chi teme speri
sempre che il soggetto del suo timore non si verifichi.
Osservate
che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza. E nondimeno ella
non può sussistere senza produrre il suo contrario.
Le
Filippiche di Cicerone, contengono l’ultima voce romana, sono l’ultimo
monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata
apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la libertà non
fu più l’oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni degli
scrittori (non solo romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione, se non
de’ francesi ultimamente. E infatti colla libertà romana spirò per sempre la
libertà delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel
passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I
suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi,
come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori. Si alzarono statue e
monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i
moderni. L’elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne’
discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo. Passato quel
termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei,
quello che hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo,
negli antenati. Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli
antichi fatti, libertà ec. esecratore degli antichi nemici della libertà, e de’
moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi,
(uomini per altro, secondo lui, egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono
alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec. Perchè appena egli
arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto, e il suo
linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e
servilissimo nel seguito. Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione,
ch’egli è anche gran panegirista di Pompeo l’immediato antagonista di Cesare: e
di Pompeo repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca ai doveri verso
una patria libera.
Quelle
rare volte ch’io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza,
in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia,
quanto all’esterno, sebbene l’interno fosse contento. Ma quel contento placido
e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col
dargli vento. E dava il mio contento in custodia alla malinconia.
(27. Dic. 1820.)
Alla
p.8. capoverso 1 e p.10. fine. Non solamente nelle azioni naturali, o manuali,
insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l’abbandono o
la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio,
premura, attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non
hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai
facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare:
o in proporzione. E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec.
dove ti prema assai di figurare, probabilmente sfigurerai. E se parlando con
una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non
perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla.
La qual cosa succede massimamente nell’amore, o anche nella galanteria, che
cercando di conservare, si perde quella stima e quell’amore di una persona che
si è guadagnato senza cercarlo. Così discorrete di cento altri generi di cose.
La natura insomma è la sola potente, e l’arte non solo non l’aiuta, ma spesso
la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che non si può ottenere
volendo fare. La noncuranza dell’esito, e la sicurezza di riuscire è il più
sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non
riuscire, è cagione del contrario. Nè si può nelle cose umane acquistar
facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa
noncuranza, o senza esser preparato in alterutram partem. E perciò i
disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente da perdere nè da
conservare, riescono meglio degli altri nella vita. Nè c’è un disperato così
povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è
disperato. E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces
fortuna iuvat.
Chiunque
conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i
sommi, porrà certo l’uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo tempo.
Quanto
a, preposizione
italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero,
deriva intieramente dal greco: ôsonpròw, ôsonm¢npròw ec. si dice nello stesso
significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460. Se non altro non si potè
più nè lodare nè insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei
espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo
al presente o al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero della vile
adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua
storia, e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli
troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona
propria. Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per
lo più de’ tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani. Il più
libero è Lucano.
(28. Dic. 1820.)
L’egoismo
comune cagiona e necessita l’egoismo di ciascuno. Perchè quando nessuno fa per
te, tu non puoi vivere se non t’adopri tutto per te solo. E quando gli altri ti
tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi
vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello
che puoi. Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè
gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de’ sacrifizi e
liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti
cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue
forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli altri quanto può, e
combatta per se fino all’ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che
la reazione sia proporzionata all’azione, se ne deve seguire l’effetto, cioè se
vuoi vivere. E l’azione essendo eccessiva, dev’esserlo anche la reazione. E
quanto l’una è maggiore, tanto l’altra dee crescere necessariamente. Come in
una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di
non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o
restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a
lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o
perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto
quello che si cede è perduto, posto il sistema dell’egoismo universale. Anche
per altra parte, questo egoismo cagiona l’egoismo individuale, cioè non solo
per l’esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista
esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de’ sacrifizi
magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se
stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e
pronti a danneggiarvi o beneficati o no. [465]La qual cosa cambia il carattere
delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l’egoismo,
anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l’egoismo
non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come
passione di vendetta, e odio de’ malvagi e degl’ingrati. Si nocentem
innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: diceva
Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l.1. c.21.
Velleio
II. 76. sect.3. Adventus deinde in Italiam Antonii, praeparatusque (cioè
apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax
contra Brundisium composita. Che vuol dire contra Brundisium? Gl’interpreti si
storcono, e chi legge circa, chi difende la volgata. Leggete: sed pax contra
Brundisii composita. Contra è avverbio. Si temeva la guerra, ma all’incontro fu
fatta la pace a Brindisi. V. però gl’istorici, e le edizioni di Velleio,
posteriori a quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd. Bat. 1744. ap. Sam.
Luchtmans.
(2. Gen. 1821.). Post
Brundisinam pacem. Vel. II. 86. sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d’ogni sventura
si può riposare, fuorchè sopra il pentimento. Nel pentimento non c’è riposo nè
pace, e perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto
in altri pensieri.
(2. Gen. 1821.). V. p.476.
capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso
gli antichi (non credo però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che
Senofonte non premise nessun preambolo alla Kærou Žnab‹sei, sebbene dal secondo libro in poi, premetta libro per
libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto
brevissimo delle cose dette prima. Vedi il Laerz. in Xenoph. Luciano, de
scribenda histor. ec. E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun
proemio alle loro istorie. Ed aggiunge, oék eÞdñtew Éw dun‹mei (potentiâ) tinŒ prooÛmi‹ ¤sti kelhJñta toçw polloçw. Io
qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate bene quell’opera: non è una storia,
ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte militare) di
quella Spedizione. Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce,
contando le parasanghe ec. ec. infatti l’opera si chiude con una lista
effettiva o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec. lista indipendente
dal resto, per la sintassi. E di queste enumerazioni ne [467]sono sparse
per tutta l’opera. Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente
in forma d’opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali.
Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il
quale comincia i suoi Commentari de bello G. e C. ex abrupto,
appunto come Senofonte. E questo perchè non erano Storia ma commentari. Nè pone
alcun preambolo a nessuno de’ libri in cui sono divisi. Così Irzio. Eccetto una
specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib.8. de b. G. (il quale era necessario non per l’opera in se, ma per la circostanza, ch’egli
n’era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b. Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello d’autore incerto de b. Hispaniensi non
hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia. Da queste osservazioni
deducete 1. un’altra prova che Senofonte è il vero autore della K. A. non
Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non poteva essere scritto o
almeno abbozzato se non in praesentia, e dallo stesso Generale (come i
commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente. Questa
proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio di [468]vista, anzi
dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun’altra
opera storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun’antica, fuorchè ai
commentarii di Cesare. Perciò ella è singolarmente preziosa anche per questo
capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de’ costumi, pensieri,
natura degli antichi, e de’ loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro
genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di
quei tempi. V. p.519. capoverso 2.
2. Che
poco saggiamente Arriano volle scrivere l’Alej‹ndrou Œn‹basin
(in 7. libri perchè 7.
son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera. Perch’egli non poteva
scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò di scrivere un giornale. Quindi le due
opere sono essenzialmente di diverso genere, cioè l’una un diario, l’altra una
storia. Meno male Onesicrito, in quello che scrisse d’Alessandro a imitazione
pure di Senofonte. Perch’egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione,
come Senofonte di Ciro. V. il Laerz. l.6. in Onesicrito. Del resto, se la
storia „EllhnikÇn di Senofonte non ha proemio, ciò
viene perch’era destinata a continuare e far tutto un corpo con quella di
Tucidide. Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio nella K. A. non
parlano di quest’altra. [469]E v. le ultime parole tÇn EllhnikÇn e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de
Xenophonte.
È
osservabile che Senofonte in quest’altra opera riesce minor di se stesso,
perchè si sforza d’imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo che il suo stile
non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero tutt’una.
E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l’opposto di quello ch’era
proprio di Senofonte. Infatti chi ha un poco di criterio, può facilmente notare
nei libri tÇn EllhnikÇn. una brevità forzata, una differenza
sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di
esser efficace, rapido, forte ec. Cosa contraria all’indole di Senofonte: e v.
Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec. e Dionigi Alicarnasseo
parimente nelle testimonianze de Xenophonte. Anzi nelle stesse frasi,
parole, modi, insomma nell’esterno e materiale dello stile, Senofonte abbandona
spesso il suo costume per seguir quello di Tucidide, così che anche l’esteriore
dello stile riesce alquanto nuovo a chi ha l’orecchio assuefatto alle altre
opere di Senofonte. Fino nell’ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a
Tucidide, scrive (contro quello che suole nelle altre [470]opere) jçn per sçn, e così nei composti dov’entra questa preposizione:
consuetudine ch’io credo familiare a Tucidide.
(2. Gen. 1821.)
Quello
che si è detto di sopra intorno ai proemi particolari di ciascun libro K. A.
eccetto il primo, non è vero nel 6to... il quale non ha proemio
nessuno. Se non che il capo 3. cominciando con un breve epilogo, ho creduto
lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto
cominciasse col 3zo capo. E però vero che il detto epilogo non
rinchiude se non le cose dette ne’ due capi antecedenti, e non tutto il detto
nella parte superiore dell’opera, come ciascun altro proemio premesso ai
diversi libri.
La
natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e
fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si accosta al perfetto,
secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è grande. Osservatelo in
tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti ec. nelle azioni, nei
caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un uomo perfetto, non è mai
grande. Un uomo grande, non è mai perfetto. [471]L’eroismo e la
perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli
eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti
ec. tale era l’idea ch’essi avevano del carattere eroico; al contrario di
Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro
eroi, ed anche i loro poemi.
(3. Gen. 1821.)
Venga un
filosofo, e mi dica. Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di
Virgilio ec. il sepolcro ec. quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e
secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù,
della gloria ec. di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl’inganni, a che
servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno,
le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in
realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque
meriterebbe il biasimo, l’esecrazione degli uomini civili? E pur quella si
chiamerebbe barbarie. Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell’uomo
sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste
essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite
generalmente della cura de’ cadaveri, dell’onore de’ sepolcri ec.
(3. Gen. 1821.)
Velleio
II. 98. sect.2. Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque
ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in
pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem,
Macedoniae pacem reddidit. Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano
eiusque pacis Patratione (così l’indice Velleiano). Ottimamente: fatta la pace,
o con quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia. Leggo: eiusque belli
patratione, (4. Gen. 1821.), ovvero eiusque patratione belli. V.
p.477. capoverso 2.
Non solo
la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace
dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di
concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l’anima non vedendo i
confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito
coll’infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna
infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più
sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una
certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un’impotenza decisa di
abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione, o
concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia
più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie
effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta,
perchè l’anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta
tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si
persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo
pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole.
Velleio
II. 90. sect.4. ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub C. Antistio,
ac deinde P. Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent.
Leggo, ceterisque postea, etiam etc. Parla delle Spagne.
Velleio
II. 102. sect.2. Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa Artageram
graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus. Come non si ha da correggere: in
conloquio?
Del
vigore del corpo, quanto influisca sopra l’animo, e in genere come lo stato
dell’animo corrisponda a quello del corpo, v. alcune sentenze degli antichi nella
nota del Grutero a Velleio II. 102. sect.2.
[474]Di un francese di nazione o di
costume, ch’a ogni tratto si buttava in ginocchio avanti alle donne. Se
raccontava loro, poniamo caso, una storietta galante, o una nuova di gazzetta,
e quelle non ci credevano, per dimostrazione, per supplicarle a credere, come
per impetrar fede o credenza, si buttava in ginocchio.
Dai
tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri
delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo aver detto
come quel tale era pazientissimo de’ travagli e de’ pericoli, attivo nei
negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi politici,
soggiunge poi, che nell’ozio era molle ed effeminato, o almeno si compiaceva
anche dell’ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che
tanto era pigro e voluttuoso nell’ozio, quanto laborioso diligente e tollerante
nel negozio. V. il libro II. c.88. sect.2. c.98. sect.3. c.102. sect.3. c.105.
sect.3. Dappertutto fa menzione dell’ozio, e sempre li trova inclinati anche a
questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo. Cosa
ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell’ozio non trovavano nè potevano
trovare nessun piacere. E infatti questo lineamento [475]nei ritratti
sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu l’epoca della
decisa e sviluppata corruzione de’ Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben
nota in questo proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo
all’ozio, 1.13. sect.3. ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell’incivilimento
e della corruzione. Notate quanto ella porti per sua natura all’inazione, all’ozio,
e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in questa
condizione della società, inclinano naturalmente all’inazione. La causa è il
piacere che nell’antico stato di Roma non si poteva trovar nell’ozio, e perciò
l’uomo desiderando il piacere e la vita si dava necessariamente all’azione: e
così accade in tutte le nazioni non ancora o mediocremente incivilite. La causa
è pure l’egoismo, per cui l’uomo non si vuole scomodare a profitto altrui, se
non quanto è necessario, o quanto giova a se stesso. La causa è la mancanza
delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza di virtù di eroismo, ec.
tolte le quali idee, deve sottentrar quella di non far nulla, lasciar correre
le cose, e godere del presente. La causa [476]per ultimo nelle monarchie
(come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni, ma del principio
di esse, non solo della vita dell’animo, ma della vita delle cose, cioè la
mancanza di cose che realizzino e fomentino queste illusioni; la difficoltà o
impossibilità di far cose grandi o importanti, e di essere o considerarsi come
importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito
ancorchè innalzato a posti sublimi. Del resto paragonate questo tratto del
carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì, nazione snervata
dall’eccessiva civiltà, col carattere de’ loro uomini più insigni per l’azione;
e ci troverete un’evidente conformità.
(5. Gen. 1821). V. p.620.
fine. e 629. capoverso 1.
Alla
p.466. pensiero 1. Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam
mutaturus Deus, (Voss. leg. cui fortunam. al. delent tò qui, et melius) consilia corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut
quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat.
Velleio II. 118. sect.4.
Non
punir mai l’ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella che hai
meritata. [477]Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore.
Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia
a ragione.
Alla
p.375. principio. In questo proposito, la differenza o dell’ingegno o del
giudizio, si può vedere in Livio, il quale è il poeta della storia, poeta vero
e grande, e degno di servir di studio e di maestro ai poeti; e nondimeno è il
modello splendidissimo della più perfetta prosa. Laddove costoro, e pessimi
prosatori, (7. Gen. 1821.) e non perciò migliori poeti ordinariamente. V.
p.526. capoverso 1.
Alla
p.472. Tanto più che quella guerra, come consistente in domar popoli affatto
barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri mezzi
artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla forza. V.
Floro IV. 12. sect.17. e Dione LIV. 34. p.764-765. dove nella nota 316.
citandosi questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto nel modo ch’io
suggerisco.
Velleio
I. 2. sect.2. di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria,
imprudenter, rixam ciens, [478]interemptus est. È vero che,
secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza
sapere ch’egli fosse il Re degli Ateniesi e v. il passo di Val. Mas. citato nelle
note a questo luogo. Ma che razza di costruzione è questa? De industria
si riferisce al rixam ciens che vien dopo l’imprudenter; l’imprudenter
all’interemptus est che vien dopo il rixam ciens. Chi
traspone e legge, de ind. rix. ciens, impr. inter. est. Chi emenda
oltracciò, de ind., ab imprudente, rix. ciens, inter. est. A me pare che
il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo la virgola
dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola dopo hostium.
Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente che fare coll’immixtusq.
castris host. il che già s’intende ch’era fatto de industria; ma
solo col rixam ciens. Ma ille imprudenter? grida il Lipsio.
Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza,
pensatamente incauto. Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli
Velleiani. Imprudenter per imprudentemente, incaute, improvide
si usa benissimo da ottimi scrittori. (come imprudens, imprudentia, e
così prudenter ec.) Il Forcellini cita Terenzio, [479]Nepote,
Cesare.
(8. Gen. 1821.)
Il veder
morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla deperire e
trasformarsi nel corpo e nell’animo da malattia (o anche da altra cagione).
Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi
sono intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la
sua morte, sussiste ancora tal qual’era e così amabile come prima, nella nostra
immaginazione. Ma nell’altro caso, la persona amata si perde
affatto,
sottentra un’altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara,
non può più sussistere neanche per nessuna forza d’illusione, perchè la
presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia
cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci disinganna violentemente, e
crudelmente: e la perdita dell’oggetto amato non è risarcita neppur dall’immaginazione.
Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso del
dolore, come nel caso di morte. Ma questa perdita è tale, che il pensiero e il
sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera. [480]Da ogni
lato ella presenta acerbissime punte.
(8. Gen. 1821.)
Che il
nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il
significato proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero,
come appunto il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la
significazione traslata di considerare o meditare; e come gli
antichi latini adoperassero veramente il loro pensare in maniera
similissima alla presente italiana, vedilo in una nota dell’Heinsio a Velleio
II. 129. sect.2. Consulta ancora il Forcellini, e l’Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i
francesi lo sogliamo adoperare frequentemente: è naturale che questo
succeda; il est bien naturel ec. si adoperava anche in latino, sebbene i
Lessicografi non l’abbiano osservato (nè il Forcellini, nè l’Appendice).
Asconio in Orat. contra L. Pison. Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam,
facit primum, quod Piso etc. deinde, quod magis NATURALE est, ut in ipso
recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque
insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in
altra edizione trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis
quam, nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi
appresso il Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll’italiano prima
che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più
presto che ec.) post anni intervallum. Questo esempio è veramente
notabile e forse unico ne’ buoni scrittori. V. però la nota del Burmanno alle
prime parole della sezione 4. del capo 128. lib. II. di Velleio, dove peraltro tŒ
pollŒ Žprosdiñnusa.
Quanta
sia la forza d’immaginazione nei fanciulli, e com’ella sia tale che le
concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto
della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa. Noi da
fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome
di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi
più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi. Formatoci
nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze
particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle nostre
simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un’altra persona
diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito
di quella persona un’idea conforme al detto tipo. E il nome può essere
elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi
immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell’altra
bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una
contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere
quel soggetto diverso da quel tipo e da quell’idea ec. Così viceversa e
relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da grandi,
e dopo che l’immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e
forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e
proporzionatamente alla forza dell’impressione ricevuta da fanciulli, e dell’immagine
concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e
secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa
ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa appartenere [483]ad
una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver
questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e
prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente l’idea che
noi abbiamo dell’eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva
dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma
da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da
noi nella prima età. Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli
concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di
persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della
persona, secondo l’effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col
significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee. E questo ci
avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell’idea concepita nella
fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il
nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella
denominazione non ci [484]formiamo una tal quale idea sì dell’esterno
che dell’interno di quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno viva,
secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne’
fanciulli, sebbene per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre
lontani dall’indifferenza), secondo questa idea, si determinano all’odio o all’amore,
a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se
non per nome.
Non si è
mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si
legge di molti moderni, e v. il Suicidio ragionato di Buonafede. Nè perchè
questo accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse
comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi
di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani
dal concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto
più dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri
antichi si uccidevano per disperazioni [485]nate da passioni e sventure,
non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all’uomo, ma
come proprie dell’individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi. La
disperazione e scoraggimento della vita in genere, l’odio della vita come vita
umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria
destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed
essenziale alla nostra vita, in somma l’idea che la vita nostra per se stessa
non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico,
nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si
uccidevano o disperavano appunto per l’opinione e la persuasione di non potere,
a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch’essi
stimavano ch’esistessero.
(10. Gen. 1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli altri a
parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho detto in
altri pensieri) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto
ciascun individuo è più vicino alla natura. I fanciulli non lo possono frenare
in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d’importunità, [487]non
communichino ai circostanti, o a quelli ch’essi vanno a cercare a posta, quei
piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro
alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una
buona o cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca:
vedendo qualunque oggetto che faccia loro impressione ec. e tanto in bene quanto
in male. Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il
volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi
vedi, senti senti. E questa esclamazione è così naturale che anche in una
gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec. tutti o moltissimi
esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o
anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello. Ma nessuno si
può tenere dall’esclamare in quel modo, dando evidente indizio della
inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare. E
osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche [488]nella
solitudine e senza nessuno uditore, quando l’uomo provi simili sensazioni in
tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti quando anche non c’è
chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i modi di soddisfare
illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta realmente. E sebben
questo accade tanto più, quanto l’individuo tiene del primitivo, e tanto più
frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di
provar sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo
anche negli uomini più colti ec. e basterebbe fare attenzione per vedere quanto
spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo. Ci avvenga,
dico, o in solitudine e fra noi stessi, o in compagnia. Ed io non credo che vi
sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi
altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva, non
sia costretto quasi suo malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a
prorompere in simili esclamazioni, dinotanti il desiderio e l’intenzione di
communicare e far parte altrui di ciò ch’egli prova.
(10 Gen. 1821.)
[489]Floro I. 8. Haec est prima aetas
populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum
industria. Tam variis ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas postulabat.
Quel quadam fatorum industria a che ha relazione? All’avere avuto il popolo
Romano una prima età ovvero un’infanzia? Cosa veramente straordinaria e
bisognosa di molto ingegno dei destini. Leggi continuamente, quadam fatorum
industria tam variis ingenio ec. perchè le dette parole non si possono
riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente da
quelle. V. però
le
ultime ediz. di Floro.
Floro I.
12. Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio. Tunc primum
hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte
iureiurando, « nisi capta urbe remeare. » Spolia de Larte Tolumnio
rege ad Feretrium reportata. Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo,
et subterraneis dolis peractum urbis excidium. [490]Tutto questo fa un periodo solo, e
non va distinto se non colle minori interpunzioni. L’hiematum sub pellibus, il
taxata hiberna, l’adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non
istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come
apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente:
Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio
mitterentur: universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur. HOC
TUNC VEII FUERE. Le quali parole chiudono la dimostrazione dell’antica
grandezza e forza di Veio. V. però le ult. edizioni di Floro.
(11 Gen. 1821.)
Sç gŒr, Î Yal°, tŒ ¤n posÜn oé dun‹menow
ideÝn, tŒ ¤pÜ toè oéranoè oàei gnÅsesJai; disse quella vecchia fantesca a
Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle. (Laerz. 1.34.
in Thalete.) [491]†Osper kaÜ Yal°n Žstronomoènta, Î Yeñdvre, (dum coelum suspiceret. Ficin.) kaÜ nv bl¡ponta, pesñnta eÞw fr¡ar, (in foveam. id.) Yr+tt‹ tiw ¤mmel¯w kaÜ xarÛessa JerainÛw (Thracia quaedam eius ancilla
concinna et lepida. id.) ŽposkÇcai l¡getai, Éw tŒ m¢n ¤n oéranÒ proJumoÝto eÞd¡nai,(pervidere contenderet. id.), tŒ d' ¦mprosJen aétoè kaÜ parŒ pñdaw, lanJ‹noi aétñn. Tétòn d¢ ŽrkeÝ, (obiici potest. id. aptius,
cadit, convenit) skÇmma ¤pÜ p‹ntaw ôsoi ¤n filosofÛ& di‹gousi: (in philosophia versantur. id.)
Platone nel Teeteto, µ perÜ ¤pist®mhw, alquanto prima della metà.
(p.127. f. Lugduni 1590.) E v. il Menag. ad Laert. I. 34. E Diogene Cinico si
maravigliava ¤Jaæmaze... toçw maJhmatikoçw (cioè gli astronomi) Žpblepein m¢n pròw tòn ´lion kaÜ t¯n sel®nhn, tŒ d' ¤n posÜ pr‹gmata paror+n (Laerz. VI. 28. in Diogene
Cynico.).
Tutto
questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e
compiangere non solo l’impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio
nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della
nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma
anche la cecità, la miseria, l’inutilità, la dannosità del sapere umano: quando
tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono
veramente ¦mprosJen
²mÇn kaÜ parŒ pñdaw, e finalmente la sommità, l’ultimo grado del sapere, consiste in
conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra’
piedi, l’avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo
e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha
impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che
ci stavano tra’ piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le
abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in
tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e
infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali
confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali
misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante
arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o
morali o religiose ec. per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la
natura delle cose, l’ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo
felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l’ordine delle cose era quello
nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch’esisteva prima dei
nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella
che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza
osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente
quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai
quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella
che sapevamo senz’avvedercene, e senza pensare o credere di sapere. Tutto era
relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo,
e perciò appunto ch’eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come
diviso dalla nostra essenza, [494]separato dalla nostra facoltà
intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme
universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili
(siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità,
quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti
nascendo: e non s’è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch’ella era
appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.
Hic sive
invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper
Gallorum Senonum incursione subprimitur. Floro I. 13. principio, entrando a
raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1.
13. ed. Manhem. Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis
adfectibus antecellebat. Perchè tum quoque? Forse ne’ tempi
seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica
fu più a cuor de’ Romani, che ne’ primi tempi di Roma? O non più tosto ella
venne indebolendo a proporzione del tempo, e all’età di Floro, era, si può
dire, estinta nel fatto? [495]E non solo ai Romani, ma a tutti i popoli
è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa confessata da tutti
anche allora, e la somma religiosità dell’antica Roma era notissima e
famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche nell’infima
plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private, laddove in
seguito fu tutto l’opposto. Io credo però che in ultimis l’abbiano
inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti,
e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell’ultima
calamità. Male. In ultimis vuol dire negl’infimi, come
apparisce dalle parole di Floro che precedono. V. il Forcellini, e le ult.
ediz. di Floro. V. p.510. capoverso 2.
Floro 1.
13. avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera
che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge con breve
intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem
gloriaretur. Che vada letto qui per quae non par da dubitare,
e sarà già osservato. Ma e così, [496]e in ogni modo, come avea da
restare alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex
ea gente: acciò non restasse nessuno DI quella gente. Chiunque ha
senso o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in
qui non ha luogo.
(12. Gen. 1821.)
Chiunque
è sommo in qualsivoglia professione per triviale o leggera o poco rilevante ch’ella
sia, certo è che poteva esser grande in altra professione di più alto affare.
Perchè non si arriva alla perfezione in veruna cosa per piccola ch’ella sia,
senza molta e singolare virtù, forza, capacità, facilità, e idoneità d’indole e
d’ingegno.
Dicono e
suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano,
giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar
poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi
della disinvoltura. Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare
o liberarsi dall’amore. [497]Ou bien buvez:
c’est un parti fort sage. Non so quanto bene. Il vino, ossia la forza del corpo,
come ho detto altrove, ed è vero, sebbene inclini all’allegrezza, e sopisca i
dolori dell’animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di
ciascheduno. Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o
disperato in amore. V. p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano
evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b
in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se
dicessimo fabella e fabellare. Qui non c’è niente di notabile o
strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha
da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto
consiste il singolare e l’osservabile in questa derivazione. Perocchè l’antico
e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso,
da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al
significato di ciancia [498]nugae, e finalmente di finzione
e racconto falso. Appunto come il greco mèJow nel suo significato proprio, valeva lo stesso che lñgow, verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova,
cred’io, adoperato se non in questa o simili significazioni, così esso come i
suoi derivati. Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto
senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc. è evidente
negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne’ più antichi e
più puri. V. il Forcellini in tutte queste voci. Ma dopo, e massimamente ne’
bassi tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non
era altro che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto
espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella)
nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore. Certo non è andata a pescare
questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna
dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di
mano in mano, e conservata e continuata senza [499]interruzione fino
alla nascita e alle origini della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato
se non per mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche
avessero conservata in uso la detta significazione sino all’ultimo, non
avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare,
usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il
significato più comune di quella parola fose stato un altro. E tale era infatti
appresso gli scrittori. Del resto come mèJow e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola,
e da quel primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella
nostra lingua novella e novellare, dal significato di favola
o racconto, trasferiti a quello di ciance o di favella,
hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola e di discorso.
V. la Crusca.
(13. Gen. 1821.). V. p.871.
fine.
La
fecondità e istabilità e velocità della immaginazione e concezione (vera o
falsa, che [500]ciò non monta) ne’ fanciulli, apparisce ancora da una
osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età di mezzana
fanciullezza (6. 7. 8. anni, o cosa simile), e sapendo già tanto e più di
lingua da potere infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi
quanto più sono loquaci, (il che è segno di fecondità) tanto più esitano e
stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec. Ho dunque notato che
ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di trovare o combinar le parole
(anzi come ho detto, i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci
riescono molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla
moltiplicità delle idee che si affollano loro in mente. Onde non sanno
scegliere, si confondono, saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e
improvvisamente soggetto; i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo
incominciato colla testa dell’uomo, finiscono colla coda del pesce. Quanta
dunque non dev’essere l’attività interna, la moltiplicità delle occupazioni
ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere [501]i
pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso la vivacità
delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli
intieramente da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita dell’animo,
e per conseguenza la felicità de’ fanciulli anche i meno felici rispetto alle
circostanze esteriori!
Alla p.497.
…Ervta paæeilimòw: eÞ d¢ m¯, xrñnow:
ƒEŒn d¢ toætoiw m¯ dænú xr°sJai,
brñxow.
Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis
vero si uti non vales, laqueus.
Detto di
Crate Cinico presso il Laerzio (VI. 86. in Cratete Thebano) mentovato anche da
altri scrittori, e riferito con qualche diversità da Stobeo, e da Suida. V. il
Menagio e l’Aldobrandini.
(13. Gen. 1821.).
Come gl’italiani
per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi,
andare, camminare ec. così fra’ latini, oltre i citati dal Forcellini,
Floro 1. 13. Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt.
Movent, et inde certamen. Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus,
come [502]soggiunge immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac
tumultu movisset ex Asia (Antiochus). (14.
Gen. 1821.) V. Sveton. in D. Julio c.60.1.
e quivi le note degli eruditi.
Come
dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo
assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15.
sul principio: Atque SI QUIS trium temporum momenta consideret, primo
commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est. Parla
delle 3. guerre Puniche. (14. Gen. 1821.). Più manifesto, e conforme all’uso italiano è
questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzioneregolare, anzi falsa
secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od. 16. l. .2. v.13.
VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec. cioè si cui (che
neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come
appunto in italiano.
Floro
II. 15. Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil. fuit), quod contra
foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et
exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat. Sed huic bono socioque
regi favebatur. Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non
conviene. Trovo però in altre edizioni territaret. Ma di più quel quidem e
quell’autem sono particelle avversative, o disgiuntive. Ma come ora si legge,
queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad altro,
che a distinguere i Numidi da Massinissa. [503]Laddove erano la stessa
cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro
dice contro i Numidi. V. gli storici. Leggo: Masinissa (v. però gli Storici, se
ciò è vero di lui) e volentieri ancora trasferirei il quidem dopo semel. La
cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva una volta
preparato esercito e flotta contro i Numidi. Massinissa però frequentemente
(vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba
essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l’adversus Numidas
quidem che opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i
di lei confini. Ma (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non
istà convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe.
In luogo
che un’anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca
all’odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la
considerazione della necessità e irreparabilità de’ suoi mali, infelicità,
disgrazie [504]ec. Soltanto l’uomo vile, o debole, o non costante, o
senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed
esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del
mondo, che l’abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla
necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe
da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre più grandi,
magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione
della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e
gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e
sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei,
dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di
vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto
più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di
ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so
se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si
racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non
cedente. Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di
necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger
l’odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori
di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente
micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell’idea
della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità
che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell’idea
della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che
mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che
volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio
possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla
considerazione dell’impossibile, e della necessità indipendente da me, [506]concepiva
un odio furioso di me stesso, giacchè l’infelicità ch’io odiava non risiedeva
se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell’odio, non
avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi
de’ miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo
motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla
mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia, e
provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio. L’immobilità delle
cose contrastando colla immobilità mia; nell’urto, non essendo io capace di
cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa
battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli
uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la
Religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di
odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità
indipendente [507]dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta
all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto
più quanto più l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e
religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto
se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.
Gli
adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere esclusi
dalla misericordia che le generazioni future porteranno all’età e generazioni
loro. E di partecipare all’odio senza essere stati esenti dai pericoli e dai
mali, anzi tutto l’opposto, e spesso più degli altri. (15. Gen. 1821.)
Qual è
la più grata compagnia? Quella che rileva l’idea che abbiamo di noi medesimi;
quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non
credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non credevamo di
meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo con maggiore
stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi. Tutto è amor proprio
nell’uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare e non è, se non quegli che
lusinga, giova ec. l’amor proprio degli altri. Questa è una delle principali
osservazioni ed artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi
piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella
galanteria. Cosa ben conosciuta dai professori di quest’ultima arte. V. quello
che Lord Nelvil [dice] di Mad. d’Arbigny presso la Staël nella Corinna. Si
desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un
piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all’amabilità
delle sue maniere e del suo carattere. La ragion vera [è] ch’egli sa fare che
noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona
opinione che avevamo di noi.
(15. Gen. 1821.)
Come noi
diciamo in paragone, in comparazione per rispetto, appetto, verso,
appresso, così Floro II. 15. della terza Punica: et in comparatione
priorum, [509]minimum labore. Il Forcellini non ha esempio di
questa locuzione, eccetto uno di Curzio che la contiene materialmente, ma non
equivale nel senso; quas in comparatione meliorum, avaritia contempserat.
L’Appendice nulla.
(15 Gen. 1821.)
Il
Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo
del seme,
Per più
dolor, del popol senza legge
Al qual,
come si legge,
Mario
aperse sì ‘l fianco,
Che memoria
de l’opra anco non langue,
Quando
assetato e stanco,
Non più bevve
del fiume acqua che sangue.
Non è
stato osservato, ch’io sappia, che quest’ultima iperbole è levata di peso da
Floro III. 3. nel racconto che fa di quella medesima battaglia contro i
Teutoni, della quale il Petrarca. Ut victor Romanus de cruento flumine
non plus aquae biberit quam sanguinis Barbarorum. Giacchè l’armata Romana era
assetata, e combattè quasi per l’acqua. E forse Floro ha preso questa immagine
da quel luogo di Tucidide nell’assedio di Siracusa, riferito ed esaminato da
Longino. (15. Gen. 1821.). V. p.724.
principio.
[510]Floro III. 3. Iam diem pugnae a
nostro Imperatore petierunt, et sic proximum dedit. In patentissimo, quem
Raudium vocant, campo concurrere. Leggerei: et hic p. d..
(15. Gen. 1821.)
Alla
p.495. Così II. 14. vir ULTIMAE sortis Andriscus. Così Velleio I.
II. sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE. Del resto o sia sbaglio dei Codd. o proprietà di Floro, e figura
grammaticale a lui familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo
da lui piuttosto prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe
effettivamente riferire, considerando il sentimento. Così II. 14. fine. Sebbene
quivi si potrà forse spiegare e tollerare. Ma III. 6. dove dice di Pompeo
destinato alla guerra Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc
victoria Pompeius visus est. Il quoque non par che si possa
riportare se non all’ante e non all’ille (quantunque i pirati
fossero stati già combattuti e vinti da P. Servilio l’Isaurico) perchè la forza
di questo luogo par che consista nella contrapposizione dell’ante felix,
col dignus nunc victoria. Onde pare che il luogo vada corretto. V. il
Forcellini dove parla del quoque congiunto coll’et [511]o etiam.
V. pure le ult. ediz. di Floro.
Alla
p.96. Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il nome di Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può confermare il mio
sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen. 1821.)
In
questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine
(Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha
detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III.
14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE quoque obvia
Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III. 15.) l’inde non par che si
possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo senso si può
paragonare l’uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri
antichi fecero dell’onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo Spagnuolo donde
che val sempre dove. E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la
particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa
significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi italiani,
onde vai, per dove vai) QUO LOCO inter [512]se OBVII fuissent. Sallust.
Cui mater MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ. Virgil. Questi esempi recati dal
Forcellini fanno per l’uso di obvius in luogo. Esempi di obvius unito a
particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè l’Appendice,
e in ogni modo qui non par che farebbero al caso. Neanche ne hanno di obvius
con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc obvius, ovvero eo
obvius, ovvero ad eum obvius o simili. Solamente questo di Virgilio: Audeo
TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA. Del resto obvius negli esempi del
Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi, ec. Nè
alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o l’Appendice non hanno questi
luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno veruno nè pur lontano di questo
significato. (16. Gen. 1821) V. pur nella Crusca altronde per altrove,
ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi, egloga 10. Melibea,
verso il fine, (Versi e prose di Mons. Bern. Baldi. Venetia 1590. p.204.) Fuggiam
fuggiamo altronde, Ch’a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto
aurato manto il ferro asconde. V. nel Forc. aliunde in un esempio
per alibi. V. pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde
ec. se ha nulla al caso. V. p.1421.
Difficilmente
il dolor solo dell’animo, ha forza di uccidere, o cagionare un’estrema
malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne
esempi reali nella vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono a
dolor d’animo quelle infermità che vengono da tutt’altro, o almeno, anche da
altre cause. E massimamente è difficile e strano che il dolor d’animo, una
sventura non corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o
avvenuta la detta sventura ec. e che in somma la vita dell’uomo si vada
consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell’animo.
(non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo
influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore
ec.) Qual è la cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell’animo. Ma
come? Coll’assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una
gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender
possesso e riconquistare l’animo nostro, anche malgrado noi; e l’uomo (purchè
viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova
quella consolazione [514]che avea creduta e giudicata impossibile;
dimentica e discrede quell’acerba verità, che avea poste nella sua mente
altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche
giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le
speranze.
Da
fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto,
una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta,
quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta
è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni
aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione) di quell’età
tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche
mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o
quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva,
campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun
modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente,
durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere di quella
sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual
fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare
con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in
proporzione, all’idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che
forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo
pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una
rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da
lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in
ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè
ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione
immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse
circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle
cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una
ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine
antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe
piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli,
incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel
risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.)
In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo
privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano,
giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E
osservate che anche i sogni piacevoli nell’età nostra, sebbene ci dilettano
assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel
piacevole indefinito come nell’età prima spessissimo.
(16. Gen. 1821.)
Oltre la
compassione, si può notare come indipendente affatto dall’amor proprio, un
altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la
stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere
p.e. un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un
uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in
qualche precipizio, senz’avvedersene. [517]E simili. Questo dei mali non
ancora accaduti. Allora proviamo ancora un’assoluta necessità d’impedirlo, se
possiamo, e se no una pena assai maggiore. Certo è che il veder uno che si fa
male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec. il vederlo, e non
impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura. Nell’atto dei
mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec. ancorchè quel male non sia degli
orribili e stomachevoli all’apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione,
la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose
inanimate, o negli esseri d’altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in
pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che
so io, un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa
necessità di esclamare, d’impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque
quella cosa [518]non appartenga a veruno in particolare, e la sua
perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare. Così che quel sentimento
dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente all’oggetto
paziente, forse ancora quand’esso abbia un possessore, e che questo c’interessi.
Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana
senza turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente
nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch’elle
sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione,
indipendentemente dalla volontà. La radice di questo sentimento non par che si
possa trovare nell’amor proprio. Par che la natura nostra abbia una certa cura
di ciò ch’è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire,
sebbene affatto alieno da noi. V. la pagina seguente. L’orrore della
distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all’amor proprio)
non par che [519]abbia parte in questo, almeno principalmente. Noi
vediamo perire tuttogiorno senza ripugnanza, o cura d’impedirlo, mille cose di
cui non facciamo conto.
Alla
pagina superiore. Par ch’ella ci abbia tutti incaricati in solido, di
provvedere per parte nostra alla conservazione di tutto il buono,
(osservate queste parole, le quali potrebbero estender di molto questo
pensiero, p.e. al morale, al bello di ogni genere e immateriale ec.), e
impedirne la distruzione, e che questa danneggi positivamente ciascuno per la
sua parte. In questo aspetto forse si potrebbe riferire alla lunga all’amor
proprio, e forse no.
Alla
p.468. Oltre che nella Salita di Ciro l’autore parla di Senofonte con un
tale temperamento di modestia, e di amore, col quale chiunque conosca il cuore
umano, leggendo la detta opera, riconosce a prima vista che l’uomo non parla nè
può parlare se non di se stesso.
(17. Gen. 1821)
[520]L’intiera filosofia è del tutto
inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione. In
questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto
cagionare alcuna rivoluzione, o movimento, o impresa ec. pubblica o privata;
anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci
ec. Ma la mezza filosofia è compatibile coll’azione, anzi può cagionarla. Così
la filosofia avrà potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la
rivoluzione di Francia, di Spagna ec. perchè la moltitudine, e il comune degli
uomini anche istruiti, non è stato nè in Francia nè altrove mai perfettamente
filosofo, ma solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore
essa stessa; non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar
movimento. E questi errori semifilosofici, possono esser vitali, massime
sostituiti ad altri errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli
derivati da un’ignoranza barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai
dettami ed alle [521]credenze della natura, o primitiva, o ridotta a
stato sociale ec. Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di
medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima
analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall’eccesso dell’incivilimento,
il quale non è mai separato dall’eccesso relativo dei lumi, dal quale anzi in
gran parte deriva. E infatti la mezza filosofia è la molla di quella poca vita
e movimento popolare d’oggidì. Trista molla, perchè, sebbene errore, e non
perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come gli errori e
le molle dell’antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi
finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni non naturali e
contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente ragionevole e vera, che
irragionevole e falsa. E la sua tendenza è parimente alla ragione, e quindi
alla morte, alla distruzione, e all’inazione. E presto o tardi, ci [522]deve
arrivare, perchè tale è l’essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l’azione
presente non può essere se non effimera, e finirà nell’inazione come per sua
natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da
principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura
inerente sostanzialmente e primordialmente all’uomo. Del resto la mezza
filosofia, non già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l’amor
patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone in Tacito, Lucano,
Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo
stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de’ progressi e perfezionamento della
filosofia presso i Romani è ben noto.
Osservate
ancora che il movimento e il fervore cagionato oggidì dalla mezza filosofia, va
perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fautori e promotori ec.
quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia coll’esperienza
ec. e quanti di semifilosofi, divengono o diverranno appoco appoco filosofi.
(17. Gen. 1821.)
Nisi
quod magnae indolis signum est, sperare [523]semper. Floro IV. 8.
Sed
quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens
(Brutus) efflavit, «non in re, sed in verbo tantum esse virtutem.» Floro IV. 7.
Floro
IV. 6. Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi
foederis societatem? Trasponete l’interrogativo dopo exercitus. Così
vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch’io
non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di
Antonio e di Lepido), s’abbia da poter dire contra duos exercitus. V. le
ult. ediz. di Floro.
Molto
acutamente Floro dice di Antonio il triumviro: Desciscit in regem: nam
aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset ad servitutem. (IV. 3.)
Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se
non signore o servo: libero e uguale agli [524]altri, non poteva. E così
quasi tutti i Romani di quello e de’ seguenti tempi: così la massima parte
degli uomini d’oggidì. Non c’è altro stato che non convenga loro, fuorchè l’uguaglianza
e la libertà. Non saprebbero se non regnare, o come fanno, servire. Ma
servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà. E tale è la natura
degli uomini servi per carattere, e corrotti dall’incivilimento, spogli di
virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi forti e
nobili, d’integrità, di coraggio, d’ingegno, di eroismo, capacità di sacrifizi,
ec. ec. Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere
relativamente e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo. In chi
domina l’egoismo, non può che servire o regnare. Così i nostri principi.
Regnano, e saprebbero servire. (Così i nostri magistrati, ministri, grandi.
Regnano e servono. Sanno riunir l’una cosa all’altra. Le mettono effettivamente
in opera ambedue.) Ma come sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto
che regnano come fanno, e che son tali signori), così sarebbero incapaci di
libertà e di uguaglianza. Questa non può nè convenire particolarmente, nè
conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della natura. Un uomo o
una nazione snaturata, non può esser libera, nè [525]molto meno uguale:
non può se non regnare o servire. La libertà richiede homines non mancipia,ndraw kaÜ oçk Žndr‹poda, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di
se stesso, dell’egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può
comportare lo stato libero, nè uguale. L’amor di se stesso è inseparabile dall’uomo.
Questo lo porta ad innalzarsi. Dove l’innalzamento ec. in somma la
soddisfazione dell’amor proprio è impossibile, quivi l’uomo non può vivere. Ora
nello stato di perfetta libertà ed uguaglianza, l’individuo non fa progressi
senza virtù e pregi veri, perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i
vantaggi ec. dipendono dalla moltitudine, la quale non potendo giudicare
secondo gli affetti e inclinazioni particolari, perchè queste son varie e
infinite, e non si accordano insieme, bisogna che giudichi secondo le regole e
le opinioni universali, cioè le vere. Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e
tali sono gli uomini corrotti), non può sopportare la libertà e l’uguaglianza,
nè trovar vita in questo stato.
(18. Gen. 1821.)
Sane
quod Poematis delectari se ait, id [526]non abhorret ab huius compendii
scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico
propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat: dice G. G. Vossio di
Floro. (de Historic. latt. l.1.) Nel lib. IV. c.11. dove Floro dice di Antonio
il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus, pare che questa sia un’imitazione
di Orazio: (Od. 5. l.3. v.10.)
Anciliorum, NOMINIS et TOGAE
BLITUS
aeternaeque Vestae.
(18. Gen. 1821.). V. p.723.
fine.
Alla
p.477. Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell’invenzione,
nell’immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella
frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile, e nella
volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza, ed
ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà
facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de’
nostri cinquecentisti. E quella stessa dose di pregi (senza [527]i quali
però non ci può esser buona nè vera prosa) basterebbe per fare ammirare uno
scrittore de’ nostri tempi, e farlo giudicare sommo ed unico. (Aggiungete tutto
quello che spetta alla lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia,
varietà ec. forma de’ periodi, e loro disposizione e connessione ec.) Ora i
migliori e sommi prosatori francesi, in ordine a questi pregi, non sono degni
di venir nemmeno in confronto con uno de’ peggiori ed infimi classici latini.
I
fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. T¡tartow
(Xenokr‹thw),
filñsofow, 'ElegeÛan gegrafÆw oçk ¤pituxÇw. (Elegiae scriptor non satis
probatus) …Idion
[1]
d¢. (Ita enim se habet res) PoihtaÜ m¢n gŒr ¤piballñmenoi pezoirafeÝn, ¤pitugx‹nousi: (si quid prosa oratione scribere
velint, praestant) pezogr‹foi d¢ ¤pitiJ¡menoi poihtik», ptaÛousi. (si poeticae sibi partes
vindicare velint, non assequuntur) D°lon tò m¢n fæsevw eänai (scil. tò t°w poihtik°w) tò d¢ t¡xnhw ¦rgon. Laerz. in Xenocrate, l.4. segm. [528]15.
E v. se ha nulla in questo proposito il Menagio.
(19. Gen. 1821.)
Come i
piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella
fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni
per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne’ fanciulli) manca
l’assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev’essere molto più
sensibile ed energico relativamente all’animo loro, che al nostro. Poi (e
questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore,
la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all’opinione della
felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll’aspetto del
bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma
speranza, o veduto attualmente negli altri; è l’opposto e la privazione di
quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata
all’uomo, posseduta dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se
quell’ostacolo non ce l’impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l’idea del
male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse
maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.
Osservate
ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un
divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore
seguente dovesse corrispondere all’aspettativa, al giubilo precedente. E che il
dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza.
Non dico alla misura del piacere provato, realmente, perchè infatti neanche i
fanciulli provano mai soddisfazione nell’atto del piacere, non potendo
nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto
altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile, non
tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla
speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se
non avessimo goduto [530]per nostra colpa. Giacchè l’esperienza non ci
aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la speranza delusa,
assuefatti a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite ec.
Insomma
considerando in quella età le cose come importanti, o più importanti di quello
che le consideriamo in altra età, (così relativamente e in particolare, come in
generale e assolutamente) è naturale che come i piaceri, così i dolori di quell’età
sieno maggiori in proporzione dell’importanza che gli oggetti del dolore o del
piacere hanno nella nostra opinione.
Così
nella speranza di qualche bene, quale non era la nostra inquietudine, i nostri
timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo, o
apparenza di difficoltà, che si opponesse al conseguimento della detta
speranza!
E se poi
l’oggetto stesso della speranza (ancorchè minimo, rispetto alle nostre opinioni
presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In maniera
che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita, non abbiamo
provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come per quelle minime
sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo
spavento proprio di quell’età (per mancanza di esperienza e sapere, e per forza
d’immaginazione ancor vergine e fresca): timor di pericoli di ogni sorta,
timore di vanità e chimere proprio solamente di quell’età, e di nessun’altra;
timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali,
spaventose per quell’età e indifferenti poi, come maschere ec. ec. (V. il
Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest’ultimo timore era così
terribile in quell’età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo
per formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce,
smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti
timori fanciulleschi. L’idea degli spettri, quel timore spirituale,
soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava frequentemente in
quell’età, aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può esser
paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell’uomo. Nemmeno il timor
dell’inferno in un moribondo, credo che possa essere così intimamente
terribile. Perchè la ragione e l’esperienza rendono inaccessibili a qualunque
sorta di sentimento, quell’ultima e profondissima [532]parte e radice
dell’animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale
scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il
detto timore.
Quid
dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis
esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu
ipse, gauderet? Cic.
Lael. sive de Amicitia. Cap.6.
(20. Gen. 1821.)
Il
piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine
di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non
futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io
spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho
provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non
perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o
meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere;
ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette [533]in
migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà,
sia riguardo all’opinione e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che
ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un
piacere: come? ciascuno individuale istante dell’atto del piacere, è relativo
agl’istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl’istanti che
seguono, vale a dire al futuro. In questo istante il piacere ch’io provo, non
mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere,
ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere
crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non
provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è il
discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione, e la sensazione dell’animo
nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimo istante, e terminato l’atto
del piacere, l’uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento:
o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente
persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di
quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è
bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non
è mai stato, e che è sempre futuro?) e l’atto di questo nuovo piacere è
composto di una successione d’istanti della stessa natura che l’altro atto; e
quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si
rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi più agl’istanti
successivi di quell’atto, ch’è già finito, si riferisce ad altri atti; l’idea
del così detto piacere provato, gli dà un’idea di quelli ch’egli crede di poter
provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una
risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova un
piacere, ma sempre ed ugualmente futuro. Così p.e. se tu sei stato lodato, o ti
sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec. L’atto di quel piacere
è stato quale l’ho descritto: ma finito l’atto, lo vai ruminando a parte a
parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o
sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla relazione che quel
preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi
dunque o devi provare, coll’idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll’idea
di te stesso, delle tue forze ec. colle speranze o reali, o rispetto all’opinione
e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all’atto del nuovo
piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere. Così il piacere non è
mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che
non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e
infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere,
benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non
essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai
viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il
piacer possibile. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo
al futuro, e non consiste che nel futuro. (20.
Gen. 1821.). V. p.612. capoverso 1.
Alla
p.532. Questo si può osservare [536]anche negli effetti fisici o esterni
delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai moti, ai
gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle quali strascinano i fanciulli e i
primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile, quale non ha
verun’altra sensazione interna nelle altre età e condizioni, ma solamente
alcune delle esterne e fisiche. Tant’è, l’immaginazione, o le sensazioni
interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato naturale, la
stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze esterne e meccaniche
in quella e nelle altre età o condizioni.
(20. Gen. 1821.)
Nihil
est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura. Cic. Lael. sive
de Amicit. c.14.
Alla
p.135. Fructus enim ingenii et virtutis, omnisque praestantiae,
tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur. Cic. Lael. sive de Amicit. c.19.
fine. E v. il capoverso superiore.
(21. Gen. 1821.)
È degna
di esser veduta, consultata, e anche [537]tradotta e riportata all’occasione,
la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia c.13. Nam quibusdam
etc. sino alla fine) contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse
ad beate vivendum, securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam
parturiat unus pro pluribus: e quindi venivano a prescrivere il curam
fugere, e l’honestam rem actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non
suscipere, aut susceptam deponere. La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell’inazione e del nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la
filosofia de’ nostri giorni. E quella disputazione di Tullio si può avere per
una disputazione contro l’egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di
nome. Quae est enim ista securitas? dice Cicerone; e segue facendo
vedere a che cosa porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille
assurdità e scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone
chiama la natura, optimam bene vivendi ducem. c.5.): ma non ottiene
neanche il suo fine, ch’è la felicità dell’individuo [538]in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l’impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell’individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna.
Eccoci tutti filosofi a quella maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi
felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù
dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e
nella società, ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, nazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello
degli altri, o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro
egoismo?
(21. Gen. 1821.).
È cosa
evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più
difficili a risolversi tanto al credere, quanto all’operare; i più incerti, i
più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena
dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose [539]come
stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità
o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la
profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di
risolvere.
(21. Gen. 1821.)
Ma non
perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito determinarsi a non
credere (come anche a non fare). Anzi perciò appunto è indizio di piccolo
spirito. Il non credere, è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti,
e profondi, ed esperti, sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile
il negare, quanto sia vero che dall’incertezza e oscurità delle cose, dalla
difficoltà di affermare, deriva necessariamente anche quella di negare, cioè
affermare che una cosa non è, genere anch’esso di affermazione. E però se una
cosa non manca affatto di prova, o di prova sufficiente a muover dubbio, o s’ella
non è del tutto assurda, o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o
col fatto, o colla ragione; eccetto in questi casi, [540]il vero saggio
e filosofo e conoscitore delle cose in quanto (sono conoscibili), ¤p¡xei
kaÜ diask¡ptetai, e
ritiene come l’assenso così anche il dissenso. Ma uomini di non molto ingegno,
bensì di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza, credono mostrar
talento quando al primo aspetto di una proposizione o cosa non ordinaria, o difficile
a credere (o non concorde colle loro opinioni e principii, o non ben dimostrata
o fondata), si determinano subito a non credere. E se ne compiacciono seco
stessi, e si credono forti di spirito, perchè sanno determinatamente e
prontamente non credere, quando è tutto l’opposto. E se bene in questo si
mescola spesse volte l’ostentazione, non è però che non lo facciano
ordinariamente di buona fede, e con verità, e che l’interno non corrisponda
alle parole. Giacchè hanno veramente questa facilità di risolversi a non
credere. Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e
cognizione delle cose.
Sic enim
mihi perspicere videor, ita natos esse nos, [541]ut inter omnes esset
societas quaedam; (ecco l’amore universale, notato anche da Cicerone, e
naturale, perchè la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro al
loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell’amore, nella società, il
loro simile, allo straniero e diverso. Questo è il vero confine dell’amore
universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi. Ma
seguitiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet. Itaque cives, potiores,
quam peregrini; et propinqui quam alieni. (Così che nel conflitto degl’interessi
di coloro che nobis proxime accedunt, cogl’interessi degli stranieri,
alieni, lontani, quelli vincono nell’animo, nella inclinazione, e nella natura
nostra: e non già nella sola parità di circostanze, ma quando anche o il bene,
o la salute e incolumità de’ vicini, porti agli strani un danno sproporzionato;
quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e di molti lontani; quando si
tratti della sola sua patria in comparazione di tutto il mondo. E tali sono
realmente gli effetti e la misura dell’amore dei bruti verso i loro [542]figli
ec. rispetto agli altri loro simili: delle api di un alveare, rispetto alle
altre ec. E v. il pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA IPSA
peperit. Cic. Lael. sive de Amicitia c.5. sulla fine.
(22. Gen. 1821.)
Quapropter
a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta amicitia, et
applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione, quantum
illa res utilitatis esset habitura. Quod quidem quale sit, etiam in bestiis
quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus, et
ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat. Quod in homine multo est
evidentius. Cic. Lael. sive de Amicitia c.8.
(22. Gen. 1821.)
Della
superiorità delle forze della natura, della fortuna, dello spontaneo, dell’amor
naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle della
ragione, della provvidenza (umana), dell’arte, dell’amore ragionato e
proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e
potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone
(Ad M. Caes. l.1. epist.8. ediz. principe. pag.58-61.) simile in parte ad un
altro nelle Lodi della Negligenza. (p.371.).
(22. Gen. 1821.)
La
superiorità della natura su la ragione e l’arte, l’assoluta incapacità di
queste a poter mai supplire a quella, la necessità della natura alla felicità
dell’uomo anche sociale, e l’impossibilità precisa di rimediare alla mancanza o
depravazione di lei, si può vedere anche nella considerazione dei governi. Più
si considera ed esamina a fondo la natura, le qualità, gli effetti di
qualsivoglia immaginabile governo; più l’uomo è saggio, profondo, riflessivo,
osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve con piena certezza, che
nello stato in cui l’uomo è ridotto, non già da poco, ma da lunghissimo tempo,
e dall’alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico
natura) primitiva in poi, non c’è governo possibile, che non sia
imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de’ popoli e degli individui: non c’è nè c’è stato [544]nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non derivino
inconvenienti, incomodi, infelicità (e non poche nè leggere) dalla natura e dai
difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o
possa essere. Insomma la perfezione di un governo umano è cosa totalmente
impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia disperata la
perfezione di ogni altra cosa umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti
governi sarebbono per se stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l’imperfezione
loro sebbene oggidì è innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e
immutabili degli uomini nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il
governo non può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d’Angeli,
o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per ministerio d’uomini);
tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente all’idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de’ suoi ministri, nè inerente alla
natura dell’uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[545]Il governo monarchico assoluto e
dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l’uomo odia naturalmente
la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà;
o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del
nostro secolo, e de’ passati, dall’estinzione, possiamo dire, della libertà
Romana, in poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e
barbaro e contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma
per il peggiore di tutti i governi. Tale sarà oggidì; non mica in principio:
anzi in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il solo
perfetto, e ragionevole e naturale. Cioè, posto che v’abbia ad essere un
governo, io dico che questo, nello stato primitivo della società, non doveva nè
poteva esser altro che il monarchico assoluto; e non volendo questo, non c’era
ragione di volere un governo.
L’uomo per
natura è libero, e uguale a qualunque altro della sua specie. Ma nello [546]stato
di società, non è così. La ragione, il principio, lo scopo della società, non è
altro che il ben comune di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo
più o meno esteso. Senza questo fine, la società manca della sua ragione. E
siccome ella è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora
non pure inutile ma dannosa all’uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò se
il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè questa per
se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all’uomo più nocumento che
vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il
ben commune di un corpo o società, non si può ottenere, se non per la
cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine. Così accade in tutte le
cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte
forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può realizzarsi senza l’accordo
e cospirazione congiunta e convenevole di tutte queste forze, verso il detto
effetto. Ecco il principio d’unità: principio che risulta necessariamente dallo
scopo della società, ch’è il ben comune. E perciò, come nel ben [547]comune,
e non in altro, consiste la ragione della società; così questa rinchiude
essenzialmente il principio di unità. A segno che società,
considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire unione
di molti: la quale unione è imperfetta, se non è perfettamente una, in quello
che concerne la sua ragione e il suo scopo: giacchè nel rimanente, dove la
società non ha bisogno di unità, l’uomo sebbene associato, è come fuori della
società, e conserva le sue qualità naturali, vale a dire la sua libertà, la
cura di se stesso, e de’ suoi negozi ec. In somma nelle altre parti indipendenti
dal ben comune, la società non sussiste, e non è società, sebbene ella sussista
nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua ragione e destinazione e
scopo.
Ma le
volontà degl’individui riuniti in corpo, gl’interessi, o le opinioni che
ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra qualunque altra cosa, sono
infinite, e diversissime. Quindi le forze di ciascuno, non possono cospirare ad
un solo fine, tra perchè non tutti si curano di proccurarlo; e perchè le
opinioni, le volontà ec. quando [548]anche si accordino nel cercarlo
assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere e
totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle
opportunità di cercarlo e proccurarlo ec. E l’uno crede o vuole che questo sia
o debba essere il fine; l’altro che sia o debba esser quello: l’uno che questo
giovi al fine convenuto e stabilito; l’altro che noccia o non giovi: l’uno che
bisogni cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l’altro che bisogni
aspettare fino a domani, o cercarlo in quest’altro modo. E così, chi non si
cura del ben comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e dannoso
alla società. Chi se ne cura, non cospira, nè può cospirar cogli altri, sia
positivamente, sia negativamente, cioè col fare, o coll’astenersi dal fare,
secondo i bisogni, e i fini ec. Dunque neppur egli corrisponde al fine della
società, il quale non può risultare se non dall’accordo dei membri verso il ben
comune: altrimenti ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la
società era inutile.
[549]In un corpo dunque perfettamente
libero e uguale, manca affatto l’unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo
della società; anzi solo costituente della società: e però in un corpo libero
ed uguale, non esiste se non il nome e la sembianza della società; vale a dire
che più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.
Come
dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo, è la
cospirazione degl’individui al detto bene, ossia l’unità; così l’ordine, lo
stato vero, la perfezione della società, non può essere se non quello che
produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità. Giacchè la
perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al
suo fine.
Come
dunque riunire ad un sol centro le opinioni, gl’interessi, le volontà di molti?
Non c’è altro mezzo che subordinarle, e farle dipendere e regolare da una sola
opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni, volontà, interessi di
un solo. L’unità è ottenuta; ma perch’ella sia vera unità, bisogna che questo
solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente [550]diriggere e
regolare e determinare le opinioni interessi volontà di ciascuno; e disporre
per conseguenza delle forze di ciascuno: in somma che tutti i membri di quella
tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello
che concerne lo scopo di detta società, cioè il di lei bene comune. Ecco dunque
la monarchia assoluta e dispotica. Eccola dimostrata, non solamente buona per
se stessa, ma inerente all’essenza, alla ragione della società umana, cioè
composta d’individui per se stessi discordanti.
Colla
monarchia assoluta e dispotica, l’unità è, come dissi, ottenuta. Questo è il
mezzo per conseguire il bene comune. Ma esso bene, cioè il fine, sarà ottenuto?
Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà di quel solo
corrisponderanno e tenderanno effettivamente al detto fine; e quanto i suoi
interessi saranno tutta una cosa cogl’interessi comuni.
Ecco la
necessità di un principe quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi e opinioni [551]prudenza
ec. per discernere e determinare il vero bene universale e i veri mezzi di
ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza,
nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine),
per diriggere effettivamente le sue forze e quelle de’ sudditi a quel fine, nel
quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il
principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli è divenuto l’anima e la testa,
e in somma la forza movente della società, anzi si può dire che la forza attiva
e negativa della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli
non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la
società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa
di nuovo inutile e dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali
che derivano dalla servitù, dall’esser tutti destinati al bene di un solo, dall’impiegare
le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per
li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso
vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il
loro bene, ma il loro [552]male. In somma tutte le calamità che derivano
dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i
viventi d’ogni specie, e quindi certa sorgente d’infelicità. Così la società
diviene un male infinito, diviene formalmente l’infelicità degli uomini che la
compongono: infelicità maggiore o minore, in proporzione che il principe, il
quale viene a racchiudere in se stesso la società, si allontana per qualunque
motivo dal di lei fine, ch’è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio
fine.
Se
dunque la società non può stare, anzi non esiste senza unità; e la perfetta
unità non può stare senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde
al fine di essa unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il
governo monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia
perfetto. Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli
animali, nè fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente
imperfetto. Ma parlando di quella perfezione che è nell’uso e nella vita comune
(Cic. de Amicit. c.5.); un principe [553]perfetto in questo senso si
poteva trovare nei principii della società. 1. Perchè la virtù, le illusioni
che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non più. 2. Perchè la
scelta può cadere sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e
giudizio, quanto per buona e retta volontà, di corrispondere al fine del
principato e della società, ossia 1° di conoscere, 2° di proccurare il ben
comune di quel corpo che lo sceglieva.
Se
dunque i primi popoli, le prime società, scelsero al principato quell’uomo che eminebat per doti dell’animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o
piuttosto uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l’uomo,
al fine della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione
della società.
Se
questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire pel comune vantaggio ad un
solo che fosse degno e capace di conoscerlo e proccurarlo, abbia mai avuto
luogo effettivamente; non [554]appartiene al mio proposito. Questo
discorso non considera nè deve considerare altro che la ragione delle cose, e
quindi come avrebbero dovuto andare, e avrebbero potuto andare da principio, e
secondo natura; non come sono andate, o vanno. Del resto negli scarsi vestigi storici
che rimangono delle antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se
non alle antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di
effettiva e realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col
pubblico bene delle rispettive società. Così nei popoli Americani, così nei
selvaggi (dove la tirannia par che s’ignori, sebbene si conosca la monarchia, o
militare, o civile), così negli antichi Germani, de’ quali Tacito ed altri;
così fra i Celti, de’ quali Ossian; così fra i greci Omerici, sebben questi
appartengono precisamente a un grado di monarchia posteriore al primitivo.
Insomma considerando le storie de’ primi tempi, si può vedere che l’idea della
tirannia, sebbene antica, non è però antichissima: [555]bensì antichissima
e primordiale nella società è l’idea della monarchia assoluta. V. Goguet,
Origine delle scienze e delle arti. Assoluta s’intende, non mica in modo che
questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per costituente la
natura di quel tale governo. Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole,
e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano col fatto al
reggimento di un solo assolutamente; senza però neppur pensare ch’egli dovesse
esser padrone della vita, dell’opera, e delle sostanze loro a capriccio, ma in
vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le circoscrizioni, le
formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e rese necessarie
dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di stringere ed
essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o materiali)
distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, matematiche ec.
perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio, ogni scanso, ogni equivoco, ogni
libertà, ogni campo aperto e indeterminato. E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho detto
di sopra, si poteva trovare un principe e capace e buono. Essendo la società
nello stato primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione,
senza impegni, senz’altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il
detto uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
Ridotti
gli uomini allo stato di depravazione (e il nostro discorso comprende tanto l’antica,
quanto la moderna depravazione, perchè anche l’antica bastava all’effetto che
dirò), non fu più possibile trovare un principe perfetto. Quando anche si fosse
trovato, non fu più possibile, ch’egli divenuto principe, si conservasse tale:
sì per la corruzione individuale degli uomini; sì per la generale della
società; i costumi mutati, le illusioni cominciate a scoprire, la virtù
cominciata a conoscere inutile o meno utile di certi vizi, gli esempi che hanno
forza di guastare qualunque divina indole. In somma non fu più possibile che l’uomo
anche più perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse. Quando anche [557]fosse
stato possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e
cresciuta, l’ambizione ec. e quindi la necessità di regole fisse, strette, e
indipendenti dall’arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore.
Bisognò dunque, perch’ella fosse certa e invariabile commetterla
al caso, e stabilire il regno ereditario. E dove questo non fu stabilito, non
si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze della scelta, perchè
la società ridotta com’era, non poteva più scegliere nè senza turbolenza, nè un
principe degno.
Dacchè
il monarca non fu più o eleggibile, o bene scelto, la monarchia divenne il
peggiore di tutti gli stati. Perchè un uomo veramente perfetto per quell’incarico,
essendo raro da principio, rarissimo in seguito, com’era possibile, che senza
una scelta accurata, si potesse trovare quest’uomo rarissimo, capace del
principato? Com’era possibile che [558]l’azzardo della nascita, o di una
scelta parimente, si può dir casuale, perchè diretta da tutt’altro che dal
vero, si combinasse a cadere appunto in quest’uomo sommo e quasi unico,
difficilissimo a trovare anche mediante la più matura considerazione e cura?
Tanto più che la corruzione della società, esigeva allora in un perfetto
principe, maggiori e più difficili qualità che per l’addietro: così che non
solo il buono era più straordinario di prima, ma inoltre un principe che
sarebbe stato perfetto una volta, non era più sufficientemente perfetto per
allora.
La
perfezione dunque del principe cosa essenziale alla monarchia, non fu più nè
considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò più nell’ordine della
società. E siccome, oltre che la perfezione era rarissima, il principe era tale
in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli poteva non solo non
essere il migliore, ma anche il peggiore degl’individui: e ciò non solo per
accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il potere, l’adulazione
ec. contribuivano [559]positivamente, definitamente, e necessariamente a
farlo tale.
Da che
dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdè la sua
ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune.
L’unità restava, ma non il di lei fine: anzi l’unità in vece di condurre al
detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo impossibile. Così anche la
società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè il comun bene, tornava ad
essere inutile e dannosa, con quel di più che risultava dall’assurdità,
barbarie, e pregiudizio sommo, dell’esser tutti nelle mani di un solo, inteso a
danneggiarli.
In
questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la società, o diminuire, laxare,
quell’unità, ch’essendo da principio e in natura il massimo e più necessario de’
beni sociali, così dopo la corruzione, è il sommo de’ mali, e l’istrumento e
sorgente delle più terribili infelicità.
[560]Allora fu che i popoli
abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero, e naturale governo, inerente
alla vera natura della società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche
ec. divisero i poteri, divisero in certo modo l’unità; ripigliando quella parte
di libertà e di uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia,
andarono anche più oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile
colla natura e ragione della società. Ed era ben naturale, perchè quel monarca
assoluto che doveva disporre di quest’altra porzione di libertà ec. non
esistendo più pel comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le
repubbliche d’ogni qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto sono posteriori
alla monarchia assoluta, e l’idea e l’esistenza della tirannia non è
antichissima, ma nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede
immediatamente l’idea e l’esistenza degli stati liberi. Giacchè l’antichissima
e primitiva forma e idea di governo, non è altra che quella dell’assoluta
monarchia. Osservate la storia greca, osservate la romana. V. Goguet loc. cit.
Dovunque e sempre la monarchia [561]precede la libertà, e la libertà
nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà anche più corrotta
successivamente, e più cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento,
nasce una nuova monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè
tutte due derivate da cattivo principio. Eccetto che la libertà ed uguaglianza
naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell’uomo insociale e
solitario, o in quella prima infanzia della società, dov’ella è piuttosto un’adunanza
materiale d’uomini che una società.
Riprendendo
il filo del discorso: coll’influenza, la forza, la viridità, l’osservanza della
natura, era finita la perfezione e l’utilità dell’assoluta monarchia: coll’assoluta
monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della società. Lungi dunque
dalla natura, e lungi dall’essenza di se stessa, la società non poteva esser
più felice. Nè vi poteva più esser governo perfetto, non solo perchè l’uomo era
allontanato dalla natura, fuor della [562]quale non v’è perfezione in qualunque
stato; ma anche e principalmente perchè quel solo governo che potesse da
principio esser perfetto, perchè il solo conveniente all’essenza della società,
era da circostanze irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla
perfezione; ed anche (presso questo o quel popolo) escluso effettivamente ed
intieramente dalla società.
La
natura, sola fonte possibile di felicità anche all’uomo sociale, è sparita.
Ecco l’arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno
avanti per supplire all’assenza o corruzone della natura, rimediarci,
sostituire i loro (pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare
in somma il luogo da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre
l’uomo cioè a quella felicità, a cui la natura lo conduceva. Quante forme di
governo non sono state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante
chimere, quante utopie ne’ pensieri de’ filosofi! certo essi erravano ne’
principii, giacchè pretendevano d’immaginare un governo perfetto, e [563](lasciando
tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità nell’applicazione delle
loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del governo non è altra che
quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non ha bisogno di studi,
meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e conseguita; anzi non
è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che semplicissima.
Fra
tante miserie di governi che quasi facevano a gara, qual fosse il più
imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare l’infelicità degli
uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico, fino a
tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile in potenza
ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza d’animo, di buoni
costumi; fu certamente il migliore di tutti. L’uomo non era più tanto naturale,
da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza corrompersi, e senza
abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza limiti, non poteva più
sussistere, nè per parte del principe che ne [564]abusava
inevitabilmente, nè per parte del popolo. Perchè se questo non era costretto e
circoscritto da freni, da leggi, da forze, in somma da catene, non era più
capace di ubbidire spontaneamente, di badare tranquillamente alla sua parte, di
non usurpare, non sacrificare il vicino, o il pubblico a se stesso, non
aspirare all’occasione anche al principato, in somma non era capace di non
tendere alla pleonejÛa in ogni cosa. L’ubbidienza e sommissione totale al principe, e l’esser
pronto a servirlo, non è insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un
esser pronto a sacrificarsi per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico bene. Dico quando la detta sommissione è spontanea. Ma l’egoismo
non è capace di sacrifizi. Dunque la detta sommissione spontanea non era più da
sperare; la comunione degl’interessi d’ogni individuo coll’interesse pubblico
era impossibile. Nato dunque l’egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non
era servo, nè il principe comandare senza esser tiranno. (V. p.523. capoverso
ult.) Le cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello
non andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed
era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione
della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle
forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo tanta
natura, tanta forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere lo
stato democratico, e conseguirne una certa felicità e perfezione di governo.
Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all’entusiasmo ec. uno stato che
esigge grand’azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica degl’individui
è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice,
come ho detto altrove, per lo più necessariamente giusto; uno stato dove per
conseguenza la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato dove
anzi era d’interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi non
erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi fatti
al popolo, il quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato
dove, se non altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può quasi
mancare al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel fantasma
immenso, quella molla onnipotente nella società; uno stato, del [566]quale
ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e
interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c’è
molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi sono
distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria,
cose poco soggette all’invidia, e perchè la strada per ottenerle è aperta a
ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà di
ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in somma uno
stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell’uomo,
naturalmente libero, e padrone di se stesso, e uguale agli altri (come ogni
altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e
felicità: un simile stato finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta
bastava perch’egli fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo
la monarchia primitiva, il più conveniente all’uomo, il più fruttuoso alla vita,
il più felice. [567]Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche
greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come
l’uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio è l’unità, dal
quale vengono necessariamente le gerarchie; così la disuguaglianza è
incompatibile con quello stato, il cui principio è l’opposto dell’unità, cioè
il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e democrazia. La perfetta
uguaglianza è la base necessaria della libertà. Vale a dire, è necessario che
fra quelli fra’ quali il potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e
nessuno ne abbia più nè meno di un altro. Perchè in questo e non in altro è
riposta l’idea, l’essenza e il fondamento della libertà. Ed oltre che senza
questo, la libertà non è più vera, nè intera; non può neanche durare in questa
imperfezione. Perchè, come l’unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e
passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad
abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le [568]democrazie vengono
a ricadere nella monarchia. Nè solamente la pleonejÛa del potere, ma ogni sorta di pleonejÛa, è incompatibile e mortifera alla libertà. Nella libertà non bisogna che
l’uno abbia sopra l’altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima, in
somma di cose che non possano essere nè invidiate per parte degli altri, nè
abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede. Altrimenti nascono le
invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità negli altri. Questi
cercano d’innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o di conseguire gli
stessi vantaggi. Quindi fazioni, discordie, partiti, clientele, risse, guerre,
e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e monarchia. Perciò gli
antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani, come Fabrizio, Catone
ec. proibivano le ricchezze, gastigavano chi possedeva troppo più degli altri
(come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano il sapere, le scienze, le
arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta di pleonejÛa. Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti [569]finchè ha durato il loro ben essere. Perciò gli Ateniesi arrivavano
ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della virtù segnalata, della mera
gloria, ancorchè spoglia di onori esterni; ed è osservabile che la superiorità
del merito anche fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era
più perfetta, cioè ne’ primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec. Colle
ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degl’ingegni, la troppa
disuguaglianza delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec. ed anche la
sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre
periranno tutte le democrazie.
Ma
siccome è impossibile la durevole conservazione della perfetta uguaglianza, e
la perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e
indispensabile della democrazia, così questo stato non può durar lungo tempo, e
si risolve naturalmente nella monarchia, se non è abbastanza fortunato per
cader piuttosto nell’oligarchia, o nel governo degli ottimati, cioè nell’aristocrazia,
le quali [570]però non sono ordinariamente, anzi si può dir sempre,
fuori che un altro gradino alla monarchia. V. p.608. capoverso 1.
Il solo
preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è
la natura, cioè le illusioni naturali, le quali diriggono l’egoismo e l’amor
proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a
mantenersi nell’uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, e rifiutare
ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli, e
delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di
tutti. Il solo rimedio contro le disuguaglianze che pur nascono, è la natura,
cioè parimente le illusioni naturali, le quali fanno e che queste
disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito, e che la virtù e l’eroismo
comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di buon occhio, e senza invidia,
e con piacere, come effetto del merito, e non si sforzi di arrivare a quella
superiorità, se non per lo stesso mezzo della virtù e del merito. E che quelli
che hanno conseguita la detta superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e
dignità (giacchè quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo
finchè dura nella [571]repubblica l’influenza della natura), non se ne
abusino, non cerchino di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino il poter
loro a mantener l’uguaglianza e libertà, si comunichino agli altri,
diminuiscano l’invidia de’ loro vantaggi col fuggire l’orgoglio, la cupidigia,
il disprezzo o l’oppressione degli inferiori ec. ec. ec. E tutto questo
accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi delle antiche democrazie,
cioè ne’ più vicini alla natura, e per gli effetti e le opere e i costumi, e
materialmente per l’età. Ma spente le illusioni, scemata o tolta la natura,
tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e dai mezzi d’ingrandimento
nei superiori, irritato negl’inferiori dalla stessa inferiorità, aggiunte le
ricchezze, il lusso, le clientele, gl’impegni, le ambitiones, la
filosofia, l’eloquenza, le arti, e le altre infinite corruzioni e pleonejÛai della società, le democrazie s’indebolirono, crollarono e finalmente
caddero. E qui torniamo al principio del nostro discorso, [572]cioè come
i governi che paiono e si trovano oggi imperfettissimi, e talora insostenibili,
fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i
costumi naturali. E come non vi sia peste, nè maggiore nè più certa a
qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l’estinzione della natura. E
come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la natura
divengono senz’altro pessimi. E come alla natura non si può supplire, e la
mancanza di lei non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può mai sperare
perfezione o felicità di governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia
pure il governo il più profondamente studiato, combinato, e perfettamente
filosofico) sarà sempre imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal
adattato all’uomo (al quale nulla si può più adattare, quand’egli non è più
quello che dovrebb’essere), inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o
certo nella vera teorica, precario, istabile, mal situato, mal piantato,
barcollante, incongruente, incoerente, [573]falso ec. Il che si potrà
anche vedere da quello che segue.
Tutti i
vari governi per li quali andò successivamente o simultaneamente errando o lo
spirito umano, o il caso, o la forza delle circostanze particolari, non
servirono ad altro che a disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti
dall’esperienza della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e
sconvenienza di tutto quello che 1° mancava di natura sola norma vera e
invariabile d’ogni istituzione mondana; 2° non corrispondeva all’essenza e alla
ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi
tutte però le diverse aberrazioni della società in ordine ai governi, vennero a
ricadere in questa monarchia, stato naturale della società, e il mondo, massime
in questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir, tutto monarchico assoluto.
Specialmente poi dall’abuso e corruzione della libertà e democrazia, nata
immediatamente dall’abuso e corruzione della [574]monarchia assoluta,
era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta. Ma non già quella
primitiva, quella ch’era buona ed utile e conveniente alla società durante l’influenza
della natura, e mediante questa sola: ma quella che può essere nell’assenza
della natura; cioè quella tanto essenzialmente pessima, quanto la primitiva è
sostanzialmente e solamente ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia
assoluta senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno grave, e
quindi forse il pessimo di tutti i governi. E la ragione è, che tolte le
credenze e illusioni naturali, non c’è ragione, non è possibile nè umano, che
altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa essenzialmente
contraria all’amor proprio, essenziale a tutti gli animali. Sicchè gli
interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente posposti a quelli
di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi degli altri, e delle
cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche capricci, insomma per
qualunque soddisfazione sua.
Il mondo
ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell’impero romano,
fino al nostro secolo. Nell’ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle
cose, l’esperienza, lo studio, l’esame delle storie, degli uomini, i confronti,
i paralelli, il commercio scambievole d’ogni sorta d’uomini, di nazioni, di
costumi, le scienze d’ogni qualità, le arti ec. ec. hanno fatto progressi tali,
che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso,
e lo stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch’è la parte
più interessante, più valevole, di maggiore e più generale influenza nelle cose
umane. Ecco finalmente che la filosofia, cioè la ragione umana, viene in campo
con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile potere, i suoi possibili
mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di supplire alla natura
perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e ricondurre quella felicità ch’è
sparita da secoli immemorabili insieme colla natura. Giacchè insomma la
felicità e non altro, è o dev’esser lo scopo di questa nostra oramai perfetta
ragione, in qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le facoltà ed
azioni umane.
Che
saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone
della natura, intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti
fatti in Francia negli ultimi del passato, e nei primi anni di questo secolo.
Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d’altronde la monarchia [576]assoluta
per tutt’uno colla tirannia, la filosofia moderna s’è appigliata (e che altro
poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo, non ritrovati,
scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte,
distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall’altra, dividere, e poi
lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier
di qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e
rattoppature e chiavi, e ingegni d’ogni sorta, per mantenere un edifizio, che
perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può più reggere
senza artifizi che non entrano affatto nell’idea primaria della sua
costruzione. La monarchia assoluta s’è cangiata in molti paesi (ora mentre io
scrivo s’aspetta che lo stesso accada in tutta Europa) in costitutiva. Non nego
che nello stato presente del mondo civile, questo non sia forse il miglior
partito. Ma insomma questa non è un’istituzione che abbia il suo fondamento e
la sua ragione nell’idea e nell’essenza o della società in generale e
assolutamente, o [577]del governo monarchico in particolare. È un’istituzione
arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi
necessariamente dev’essere istabile, mutabile, incerta e nella sua forma, e
nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero emergere perch’ella
corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità della nazione.
1° Tutto
quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha un’esistenza
sostanzialmente precaria. La cosa può restare, e la modificazione perire,
alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi, diversificarsi in mille guise, non
ottenere il suo scopo, restare quanto al nome e all’apparenza, non quanto al
fatto. Insomma le convengono tutte quelle proprietà, che nelle scuole si
attribuiscono all’accidente, e che lo definiscono. Di più, ancorchè
resti, e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente
può giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione
nell’essenza e natura della cosa.
2° La
ragione e l’essenza della monarchia consiste in questo, che alla società è
necessaria [578]l’unità. L’unità non è vera se il capo o principe non è
propriamente e interamente uno. Questo non vuol dir altro se non che essere
assoluto, cioè padrone egli solo di tutto quello che concerne il suo fine, cioè
il bene comune. Quanto più si divide il potere, tanto più si pregiudica all’unità,
dunque tanto più si viola, si allontana e si esclude la ragione e la perfezione
e della monarchia e della società.
Così che
lo stato costituzionale non corrisponde alla natura e ragione nè della società
in genere, nè della monarchia in specie. Ed è manifesto che la costituzione non
è altro che una medicina a un corpo malato. La qual medicina sarebbe aliena da
quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei. Dunque bisogna compensare
l’imperfezione della malattia, con un’altra imperfezione. E così appunto la
costituzione non è altro che una necessaria imperfezione del governo. Un male
indispensabile per rimediare o impedire un maggior male. Come un cauterio in un
individuo affetto da reumi ec. Che sebbene quell’individuo vive [579]mediante
quel cauterio, altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro
il quale è diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male,
un vizio, un’imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male, nuoce il
rimedio: e quell’individuo non è mica perfetto nè sano. Così una gamba di legno
a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina bensì con quella gamba, che
altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non perciò resta ch’egli non sia
imperfetto.
Ed ecco
(per conclusione del mio discorso) come quei governi e quelle cose d’ogni
genere, che da principio e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta
la natura, non possono più esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del
sapere, dell’arte: e queste non possono mai riempiere il luogo della natura, e
fare perfettamente le di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono
necessariamente un altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque
genere di cose, ne formano un’imperfezione, e rendono quella tal cosa
imperfetta per ciò solo che le contiene.
Da tutto
il sopraddetto deducete questo corollario. L’uomo è naturalmente,
primitivamente, [580]ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli
altri, e queste qualità appartengono inseparabilmente all’idea della natura e
dell’essenza costitutiva dell’uomo, come degli altri animali. La società è
nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e
senza queste qualità la società non è perfetta, anzi non è vera società.
Pertanto l’uomo in società bisogna che necessariamente si spogli e perda delle
qualità essenziali, naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se
stesso. Le quali egli può ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come
si può considerare un essere spoglio di una sua qualità intrinseca,
costitutiva, e indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne
o accidentali, perch’essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in
ragione, quanto dura quell’essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo
stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è
parimente indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro [581]essere,
ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della uguaglianza in
ragione, sarebbe privo dell’essenza umana, e non sarebbe un uomo, ch’è
impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente
questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà
propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire
in tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e
come egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire
per sempre; così l’istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può
non poterlo fare. V. p.452. capoverso 1. Dunque la società, spogliando l’uomo
in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non
conviene all’uomo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e
primitivamente imperfetto, ed alieno per conseguenza dalla sua felicità: e
contraddittorio nell’ordine delle cose.
Del
resto tutto quello ch’io dico della necessità dell’unità, e quindi dipendenza [582]soggezione
e disuguaglianza nella società, non appartiene e non ha forza in quanto a
quella società veramente primordiale, che entra nell’essenza, ordine e natura
della specie umana e degli animali: società imperfetta in quanto società;
perfetta in quanto all’essenza vera e primitiva dell’uomo e degli animali, e
all’ordine delle cose, dove nulla è perfetto assolutamente, ma relativamente.
Volendo appurare l’idea della società, ne risulta direttamente la conseguenza
che ho detto, cioè la necessità dell’unità, e quindi della monarchia ec. Ma
questi appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze,
queste sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura,
e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perchè la
natura effettivamente non le ha seguite. E non solo non è imperfetto quello che
non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè però sia naturale; ma
anzi non può esser perfetto tutto quello che vien ridotto e conformato alle dette
idee, perchè non è più conforme al suo [583]stato essenziale e
primitivo. E dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera
imperfezione (quando anche questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e
corruzioni), cioè discordanza dalla natura, e dall’ordine primitivo delle cose,
il quale era combinato in altro modo, e fuor del quale non v’è perfezione,
benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa. La stretta precisione entra
nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si
trovava nell’effetto. È necessaria ai nostri tempi, dove l’ordine delle cose è
corrotto, ed è come degnissimo d’osservazione altrettanto evidente e osservato,
che la stretta precisione delle leggi, istituzioni, statuti governi ec. insomma
delle cose, è sempre cresciuta in proporzione che gli uomini e i secoli sono
stati più guasti: ed ora è venuta al colmo, perchè anche la corruzione è
eccessiva, e ha passato tutti i limiti. L’appresso a poco, il facilmente e simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è, se può
non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove infinite cose
erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto bastantemente,
quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto. Altrimenti come
si sarebbe potuta corromper la natura, e l’ordine delle cose, in quel modo in
cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti, più o meno, bisogna che
convengano. Ma ciò non avrebbe potuto accadere se tutto quello che era, non
avesse potuto non essere, nè essere nè andare altrimenti. Il qual effetto è lo
scopo della ragione e de’ presenti sistemi, sempre diretti a rendere
impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare
impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa
pure è una gran fonte di errori ne’ filosofi, massime moderni, i quali
assuefatti all’esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda
oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono che il sistema
della natura debba corrispondere a questi principii; e non credono naturale
quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo
contrario, [585]si può dir tutto il preciso non è naturale: certo è un
gran carattere del naturale il non esser preciso. Ma il detto errore è fratello
di quello che suppone nelle cose il vero, il bello, il buono, la perfezione
assoluta.
Nella
natura e nell’ordine delle cose bisogna considerare la disposizion primitiva, l’intenzione,
il come le cose andassero da principio, il come piaccia alla natura che vadano,
il come dovrebbero andare; non la necessità, nè il come non possano non andare.
Ed egli è certissimo che, sebben l’ordine delle cose andava naturalmente nell’ottimo
modo possibile, e regolarissimamente, contuttociò andava alla buona; e
la massima parte delle cagioni corrispondeva agli effetti sufficientemente (che
questo si richiede alla provvidenza dell’effetto voluto: la sufficienza della
causa), non necessariamente. E ciò non solo negli uomini, ma negli animali, e
in tutti gli altri ordini di cose. E perciò appunto si trovano e accadono
tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni, accidenti particolari
contrari all’ordine generale: e non parlo già di quelli soli che derivano da
noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto dall’azione e dall’ordine
nostro. I quali accidenti che si chiamano mali, disastri, ec. danno tanto che
fare ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo nell’opera della
natura: ed alcuni sono stati così temerari, che siccome la ragione nelle sue
piccole opere si sforza di escludere la possibilità d’ogni accidente
particolare contrario a quel tal ordine generale; così hanno creduto che se la
ragione umana avesse presieduto all’opera della natura, questi accidenti non
avrebbero avuto luogo. Ma le dette imperfezioni accidentali non entrano nel
piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non conoscendo l’intero
ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente e
necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come dicono
i Teologi che Dio permette il peccato, ch’è sommo male e imperfezione, ma
accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura, è
composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non risponde
all’esattezza matematica.
[587]Così dunque la società veramente
primordiale, e naturale alla specie umana, come a quelle dei bruti, senza
principato, senza soggezione, senza disuguaglianza, senza gradi, senza regole,
poteva benissimo corrispondere al fine, cioè al comun bene, come vi corrisponde
quella delle formiche: al qual fine non può mai corrispondere una società più
stretta e formata, se manca di unità. Ma quella primissima società camminava
alla buona, e così alla buona conseguiva l’intento della natura, e la sua
destinazione. Nè per questo era necessario opporsi alla natura, e introdurre
una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione nell’ordine
delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità ingenite ed
essenziali dell’uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza contrarie alla
libertà ed uguaglianza naturale.
Che se
le api hanno un capo, e quindi soggezione e disparità, questo non fa obbiezione
veruna. Tutto essendo relativo, la natura che ha fatto gli uomini liberi e
uguali, e così infinite altre specie di animali; poteva far le api (e altre
tali specie, [588]se ve ne ha) disuguali e soggette. E siccome ella lo
ha fatto, dando una superiorità ingenita e naturale a certi
individui di quella specie, sopra gli altri individui; perciò, come lo stato
dell’uomo e degli altri animali non può esser perfetto senza libertà ed
uguaglianza, perchè queste sono naturali in loro; così per lo contrario lo
stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza, perchè la
loro specie è così fatta e ordinata da natura, e la perfezione consiste nello
stato naturale.
Negli
uomini dunque non c’è nulla di simile, nè si può dedur nulla in proposito loro,
dall’esempio delle api. Perchè le piccole (certo piccole in proporzione della
disparità delle api), dico le piccole disparità o superiorità di forze, di
statura, d’ingegno ec. che s’incontrano negli uomini, sono disparità o
superiorità accidentali, e provenienti da cause subalterne; come sono
inferiorità accidentali quelle che vengono da malattie, da cadute, disgrazie d’ogni
genere ec. Sono dico accidentali queste o superiorità, o inferiorità, cioè non
sono regolari, e non appartengono all’ordine primitivo, costante, invariabile, [589]essenzale
della specie, come la disparità delle api. Che se queste tali superiorità
dessero a chi le possiede, un diritto di comandare e di essere ubbidito,
1. dove molti le possedessero in ugual grado, o non si saprebbe a chi ubbirire,
o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed ecco svanita l’idea dell’unità: 2.
dove non ci fosse disparità nessuna, il principato non sarebbe naturale, dove
ci fosse, sarebbe naturale: 3. e di più siccome le disparità possono nascere
accidentalmente in diversi tempi, perciò in una stessa società anzi generazione
di uomini, oggi non sarebbe naturale il principato, domani sì: 4. il fanciullo
futuro superiore di forze ec. siccome ancora non è tale, e forse non diverrà
tale, se non per cause accidentalissime, e imprevedibili; così non avrebbe
ancora nessun’ombra di quel diritto al comando, che avrà poi per natura:
5. questo diritto supposto naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto
durasse la superiorità in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il
vigore del corpo, o dell’ingegno, o dell’animo, la virtù, il coraggio ec. per
malattie, per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione di [590]opinioni,
di costumi ec. per abuso fatto del corpo, o in ogni modo invecchiando, il che è
inevitabile; perderebbero essenzialmente non solo in fatto ma in diritto quel
comando, che si suppone avessero naturalmente e per se. V. p.609. capoverso 1.
Insomma gli accidenti sono del tutto fuori d’ogni considerazione, intorno all’ordine
primitivo e stabile, e alla natura di qualunque cosa.
Del
resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l’idea che a qualunque società, per
poco ch’ella sia formata, e che declini dalla primissima forma di società,
comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria l’unità, cioè un
capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d’ogni
nazione, e in ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie,
nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo
comune, e sia destinata tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono
abbattuto a sentire un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d’ingegno,
il quale a una compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo,
per far guadagno [591]mediante un capitale comune e indivisibile (cioè
un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro è questo se non l’idea precisa della
necessità della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo
interesse più dell’altrui, cosa contrarissima all’interesse e allo scopo
comune, l’uno farà pregiudizio all’altro, e al tutto; e così ciascuno sarà
pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario dell’unità) v’impedirà di
conseguire quello che cercate.
Quod si
hoc apparet in bestiis, volucribus, nantibus, agrestibus, cicuribus, feris,
primum ut se ipsae diligant; (id enim pariter cum omni animante nascitur)
(dunque Cicerone riconosceva le bestie per dotate di libertà) deinde, ut requirant,
atque appetant, ad quas se applicent, eiusdem generis animantes; idque faciunt
cum desiderio, et cum quadam similitudine amoris humani: quanto id magis in
homine fit natura, qui et se ipse diligit, et alterum anquirit, cuius animum [592]ita
cum suo misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic. Lael. sive de Amicit.
c.21. fine.
Della
nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto
straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v. un luogo insigne di
Cic. (Lael. sive de Amicit. tutto il c.23.) il qual passo, io credo che sia
stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31. Gen. 1821.)
Cic.
Lael. sive de Amicit. c. II. Quod si rectum statuerimus, vel concedere amicis,
quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM
SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui
ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos
novit vita communis. Leggi si perfecta q. s. simus, nihil h. r. v. come
richiede evidentemente il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31. Gen. 1821.).
Communicare per particeps fieri, essere,
o venire a parte, del qual significato il Forcellini [593]non
reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità (l’Appendice
nulla) si trova presso Cicerone: (Lael. sive de Amicit. c.7.) Itaque, si
quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut
communicandis, (cioè nel prender parte ai pericoli dell’amico) quis est,
qui id non maximis efferat laudibus? V. un non so che di simile nella
Crusca.
Alla
p.307. Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur
sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec
pauciores, et certe meliores fuerunt viri? L’Affricano maggiore al minore,
presso Cicerone, Somn. Scipion. c.7. V. p.643. capoverso 3.
Quid
autem est horum in voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese, et praedicatione
effert? (Cic. Paradox. I. c.3. fine) Oggi sibbene, o M. Tullio, nè c’è maggior
gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera loro più brillantemente,
manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di ottener lode e stima più
sicuro e comune, che quello [594]di seguire e conseguire le voluttà, ed
abbondarne, e ciò più degli altri. L’oggetto delle gare ed emulazioni della più
florida parte della gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la
gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e può godere e
immergersi nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della
gioventù presente: tanto che già non si cercano principalmente per se stesse,
ma per la gloria che ridonda dall’averle cercate e conseguite. E se non di tutte
le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo, in
cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade tuttogiorno ancor
questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo
godimento: anzi questo godimento consiste per la massima parte nella
considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterà: e subito dopo, non
ha maggior cura, che di divulgare e vantarsi della voluttà provata; e questo
anche a rischio di chiudersi l’adito a nuove voluttà; e colla certezza di
nuocere, tradire, essere [595]ingiusto e ingrato verso coloro onde ha
ottenuta la voluttà che cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà
rende l’uomo migliore, lo rende però più lodevole agli occhi della presente
generazone, il che tu o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
Quella
frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare,
travagliare, tormentare, e affligger l’animo (così la Crusca v. Cuocere §.3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne’
più antichi.
O Tite, si
quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso,
QUAE nunc TE COQUIT, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit
pretii?
Ennio
presso Cicerone (Cato maior seu de Senect. c.1.) Il Forcellini ne porta anche
altri due esempi, l’uno di Virgilio, l’altro di Stazio. L’Appendice nulla.
'AmaJÛa m¢n Jr‹sow,
logismñw d' öknon f¡rei.
L’ignoranza fa l’uomo pronto, [596]la considerazione ritenuto; L’ignoranza
fa che l’uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente. In latino
traducono così: Inscitia quidem audaciam, consideratio autem tarditatem fert.
Sentenza di Tucidide, lib.2. nell’orazione funebre detta da Pericle, che
incomincia, oß m¢n polloÜ tÇn ¤nJ‹de ³dh eÞrhkñtvn. Sentenza celebre presso gli
antichi. Luciano: (in Epist. ad Nigrinum, quae praemittitur Nigrino, seu de
Philosophi moribus) ƒApofeægoig' ’n (scamperò) eÞkñtvw kaÜ tò YoukudÛdou l¡gontow, ôti ² ŽmaJÛa m¢n JraseÝw, ôknhroæw d¢ tò lelogis¡non Žperg‹zetai. Imperitia audaces, res autem
considerata timidos efficit. Plinio (Epist. IV. 7.): Hanc ille vim, (seu quo
alio nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi) si ad potiora
vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam minor vis bonis, quam
malis inest, ac sicut ŽmaJÛa m¢n Jr‹sow, logismòw d¢ öknon f¡rei, ita recta ingenia debilitat
verecundia, perversa [597]confirmat audacia. S. Girolamo: (Epist. 126.
ad Evagr.) (così è numerata nella mia ediz. t.3. p.31. a.) Tuum certe
spiritualem illum interpretem non recipies; qui imperitus sermone et scientia,
tanto supercilio et auctoritate Melchisedek Spiritum Sanctum pronunciavit, ut
illud verissimum comprobarit, quod apud Graecos canitur: imperitia
confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio,
stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo si sono conservati
materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben
questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il
significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite
altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l’anima, tuttavia la nostra
lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di
stoppa, e l’usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia
registrata nella Crusca.
(1. Feb. 1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio reges (nam
in terris nomen imperii id primum fuit) (cioè, il primo governo, le
premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle, la più antica signoria,
come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire assoluta) diversi, pars ingenium,
alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur,
sua cuique satis placebant. (Cioè, l’egoismo non turbava l’ordine
pubblico). Sallustio, Bell. Catilinar. c.2.
Ius
bonumque apud eos, (i romani de’ primi tempi della repubblica) non legibus
magis quam naturâ valebat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.9.
Regium
imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae reipublicae
fuerat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.6. fine.
At
populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum) quia
prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières,
Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume
erat: ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere
riportato qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque
facere quam dicere,